di Linda Stroppolo

Nessun treno, nessun vagone, nessun romantico convoglio; scesi ad Aci-Trezza quel giorno, ancora intontiti dall’oziosa pigrizia che è degli studenti, nel camminare, un po’ assonnati, sui sampietrini sotto ai nostri piedi, era già ardua la richiesta di conoscere almeno qualche lieve nota sulla significanza di quel luogo.

La mente ancora un po’ confusa ché ogni sosta è come una “stravolta”, gli occhi socchiusi, infastiditi dal sole invadente (“unruly sun” direbbe John Donne), ritornavamo nel pensiero con un pizzico di invidia alla trasferta appena compiuta: agli enormi vuoti discorsi, alle pungenti risa, ai muti sbadigli, gli sguardi gelosi, le mani intrecciate, ai segreti, alle domande…

E nello scendere ancora ignoranti, così come nei primi passi ché di tutti è l’usanza di guardare a terra andando avanti, ma punti da quei raggi che s’apprestavano a regalarci non più noie ma oniriche visioni, iniziammo a posare lo sguardo su quei muri e quelle finestre dal così suggestivo potere.

Incapaci eravamo diventati di frenar lo stupore: in quella viuzza ruvida, come le mani d’un pescatore, ci pareva d’esser capitati, al concludersi d’un ispirato vagabondare, in uno di quegli acquerelli che un po’ per il tema, un po’ per l’autore odorano ancora di sale.

E non so se il fascino lo debbo al vivido risaltare d’ogni dettaglio o alla predicata essenzialità di quel quadro, ma l’emozione che l’assister mi provocava, mi facea erroneamente intendere uno spendere d’impegno e cura dietro ogni minuzia: quell’intonaco mangiucchiato dal tempo e quei balconi su cui si infrange l’asciutto fiato del vento, come possono apparir così belli se non risultati d’un ragionar di studiate menti?

Quanti istanti ho dedicato a rimirar quell’uscio? Quanti? Quale rugosa saggezza mi ispirava quasi che, come una bocca ormai stanca, la pelle dura, inscurita dal sole, dispensasse noi, maravigliati passanti, di qualche prezioso senno, in proverbial forma, frutto di calli ed eterni echi degli andati anni.

Rapiti ognuno in una diversa lentiggine di quel popolo attorno a noi ritratto, restammo come affatturati allo stendersi fronte agli occhi d’un incantevole paesaggio: l’aurea distesa del mare carezzava con inimmaginabile dolcezza l’aspro profilo degli scogli, rassegnati ormai ad un’umida esistenza, questi, con maturata noncuranza, si concedevano al ritmico passaggio.

A seguir col guardo le creste accennate che morbidamente le acque traversavano, perdersi era un attimo, ché gli occhi -tutt’altro che rei- scivolavano, come vittime da un ignoto disio attratte, ai Faraglioni, fieri capitani, fermi al sartiame, che, capaci d’un tetro coraggio, immobili restano, roccaforti massicce, nel far fronte all’attacco.

Nasce involontario il senso di colma gratitudine verso quelle robuste porte, pie nel proteggere; incomprensibile la gratitudine, introvabile il nemico, ma resta tuttavia nell’animo la riconoscenza mista ad una mesta pena per la misera esistenza che inspiegabilmente indoviniamo: non è artificioso figurasi giorni vissuti con ferocia, stenti e fame di giorni ancora dentro quelle case, la cui pittoresca accozzaglia mitiga con efficacia le taglienti inopie delle polverose vite, declinando le aspre rinunce in semplici realtà estranee alle malizie.

Monumento da Dio sorto in onor degli annegati in un mar di patimenti, i Faraglioni serbano ancor la dignità che mai cedettero coloro per cui furono eretti.