di Giada Cabbai

C’era una volta…una piccola landa isolata ai piedi di monti che sovrastavano il cielo. Nascosta com’era, non poteva che risplendere di tutto l’amore di cui straripava. Laghi cristallini e foreste incantate si celavano tra le solide vette che la circondavano come mura di pietra, proteggendone dal più piccolo al più grande dei tesori. Era così che lo chiamava la gente: l’amore. Un tesoro che pochi avevano la fortuna di trovare e che molti sognavano ad occhi aperti, accecati dallo splendore che emanava. Gli abitanti della landa avevano occhi trasparenti come limpidi specchi d’acqua, in cui si scorgevano i sogni, le speranze e la luce di cui brillavano senza spegnersi mai.
“L’amore lo trovano i fortunati” aveva spiegato un vecchio venditore di storie. “Quello puro e candido come la neve, splendente sotto il calore che scioglie il cuore.” E da quelle parole scaturivano sguardi incantati e sognanti, persi in misteri dell’anima, sepolti sotto ad occhi vuoti, scavati dal tempo e dalla rassegnazione.
E così la gente iniziava a sperare, percorrendo sentieri mostruosi e sconvenienti, ma portatori di amori veri, puri e sconfinati. Non si accontentava di quei segreti, la folla. Ne voleva scorgere la più intima verità, per potersi colmare di una speranza inarrestabile e cercare senza sosta un amore per pochi, ma talmente potente da accendere la più spenta e scoraggiata delle anime.
E così il vecchio iniziava a narrare, con voce profonda ed occhi in cui ci si poteva perdere, inciampando nei misteri che aveva da raccontare. Dalla sua voce nascevano immagini, scenari e paesaggi, e vivevano anime di umili personaggi aggrappati alle labbra di chi aveva saputo descrivere storie mai dette prima, e vedere verità nascoste…

Le piaceva ripensare a quel momento, perdendosi nella magia di quegli attimi che le avevano segnato il cuore…
Riusciva ancora a sentire la candida aria fresca che le solleticava i capelli, il profumo di viole diffuso nell’aria, il pizzicore dell’erba che le vellicava i piedi…
Mentre danzava immersa nei suoi pensieri, aveva sentito una musica soffusa provenire da lontano. Si era fermata, aveva teso le orecchie curiose ed il suo petto si era colmato di quella melodia soave, dolce e leggera, perdendosi tra note armoniose ed incantate…non ci aveva potuto far niente: appena essa l’aveva trovata, si era impossessata di lei. E così lei l’aveva seguita, muovendosi agilmente tra i fiori colorati del prato e schivando gli alberi che l’ostacolavano. Ogni tanto si fermava ad ascoltare, per poi ripartire, gioiosa, incantata, persa…

Arrivata all’entrata di una grotta, si era fermata. La musica proveniva da quell’antro, ne era sicura. L’ingresso era coperto da lunghe strisce d’edera pendente, che impedivano di scorgere l’interno. Delicatamente aveva scostato le foglie e si era aperta una piccola visuale sulla cavità. I suoi occhi si erano riempiti di una luce abbagliante: li aveva chiusi per poi riaprirli piano. Fasci di luce diramati disegnavano fantasie floreali sul terreno e sulle pareti, illuminando una figura alta e magra in piedi vicino alla parete di fondo. Fu quando posò gli occhi su di lui che se ne innamorò. I lineamenti definiti e decisi, gli occhi grandi, scuri e profondi, circondati da folti e morbidi capelli bruni. Ogni cosa di lui era perfetta: dalle corte corna che gli spuntavano dai capelli, alla bocca socchiusa intenta a soffiare in uno strano flauto su cui faceva scendere delicatamente le mani vellutate. Lo sguardo scese poi sulle forti gambe sulle quali ciondolava mentre suonava. Erano gambe…di capra. Un satiro. Ma non un satiro qualunque: il satiro di cui Tsuki si era innamorata.

Mentre rimaneva incantata da quella visione, il suo stomaco sprofondò in uno sfavillio di farfalle e il suo cuore si scaldò ancor di più nella musica che le riempiva le orecchie.
Non se ne era accorta, ma, quando lo fece, era ormai troppo tardi: l’aveva vista, la stava guardando, e aveva smesso di suonare…
“Ciao” le aveva detto.
E Tsuki era scappata.

Erano passati diversi giorni da quando l’aveva vista, ma la sua immagine era ancora limpida e vivida nella sua mente. Quei lunghi capelli verdi, scompigliati dall’edera e dal vento e coronati da un’elaborata corona di fiori rossi e bianchi, quegli occhi scuri e profondi, la pelle chiara che risplendeva sotto la luce del Sole…
Ripensandoci, la sua mente si riempiva di luccichii e fantasie…non aveva mai visto niente di così semplice e dolce…niente di così…perfetto. Ma chi era? L’avrebbe rivista? Nella speranza di dare un esito positivo a queste domande, si addormentò sognandola, e capì che se ne era innamorato.

“Ciao”, Tsuki sussultò. La ricordava quella voce…l’aveva già sentita. Si tese in un fascio di nervi ed iniziò a scappare, ma, prima che potesse muovere un passo, una mano calda si appoggiò al suo braccio, tenendola ferma. Si girò…e lui era lì. Accanto a lei, la guardava sorridendo. Tsuki, imbarazzata, abbassò lo sguardo ed aspettò che parlasse.
“Ciao” di nuovo quella voce, vellutata, calma e rassicurante.
Tsuki non rispose, la pelle le ribolliva addosso.
“Come ti chiami?”. A quel punto fu costretta a guardarlo…e i suoi occhi si rifecero gioiosi alla sua vista…era bellissimo.
“Io…io…mi chiamo…mi chiamo Tsuki”.
“Che bel nome” pensò… “Io mi chiamo Taiyo”. Taiyo avrebbe voluto dirle moltissime cose: chiederle quanti anni aveva, da dove veniva, chi era…ma i suoi sentimenti erano troppo forti. Delicatamente la prese tra le braccia, le accarezzò i capelli e si avvicinò al suo viso. “Sei bellissima” sussurrò. Tsuki arrossì. I due si guardarono intensamente. Incantato, Taiyo appoggiò piano le labbra su quelle di lei. Erano morbide, calde e vellutate. Non si era mai sentito così. Innamorato. Così…perso. Il suo cuore, al settimo cielo, si colmò di un amore puro, caldo, sfavillante. Un amore ai confini del mondo.