di Elisa Fiore

La bellezza è da sempre riconosciuta in modo soggettivo, in quanto “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Perciò è lo stesso soggetto che partecipa alla bellezza dell’oggetto, egli ne delinea caratteri in modo da renderlo bello ai suoi occhi. Diviene così indissolubile il legame tra soggetto e oggetto. Leopardi stesso nel suo “Infinito” ce ne dà la prova quando, sedendo di fronte a un cespuglio, ci racconta di un’infinita veduta spettacolare “di là di quella” nella quale trova conforto nonostante sia frutto della sua immaginazione.

Così riescono ad appassionarci i libri, siamo attratti dalla visione parziale o velata, dal mistero. La nostra mente impreziosisce i ricordi e trova di profonda bellezza esperienze mai vissute, o aspettative nel futuro. È la nostra mente quindi che già racchiude dentro sé la conoscenza di ciò che la stimola. Ci ripropone e finge realtà qualcosa di già riconosciuto che va solo rispolverato e presentato in nuove vesti, appena si scorge una fessura da colmare. Siamo già a conoscenza di canoni e misure, quindi li compariamo al mondo reale e quando questi coincidono ci troviamo di fronte al piacere. Ma da dove provengono tali informazioni da renderci la bellezza una figura nota?

È qui che si entra nell’ambito dell’intersoggettività.

“La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna.”

(Oscar Wilde)

La bellezza, dunque, è “un fatto del mondo”. È il piacere proveniente dal principio condiviso degli umani, dal vissuto che tutti ci portiamo dentro grazie alla nostra natura in comune. Questo è il motivo, per esempio, della gioia alla vista di un tramonto che ci accomuna, allo stesso modo in cui lo fa il nostro essere umani. Vale lo stesso per l’attrazione fisica, dovuta ai nostri primitivi bisogni naturali. La  “selezione sessuale” di Charles Darwin ce ne porta la teoria di fondo. La bellezza dei corpi ha assunto un ruolo di protagonista nell’evoluzione della specie in quanto dotata di un potenziale attrattivo che porta alla riproduzione e al proseguimento della razza. Gli antichissimi concetti di armonia, proporzione, equilibrio e abbondanza ci vengono perciò tramandati grazie ai nostri antenati.

La collettività del pensiero umano, giustificata dal nostro DNA condiviso, rende anche il nostro modo di pensare e di sentire più o meno lo stesso. Non conosciamo le menti specifiche delle altre persone, ma per analogia alla nostra possiamo ricostruirne il pensiero a grandi linee. Diviene quindi semplice la condivisione dell’etica e dell’estetica e la bellezza assume carattere relazionale. Perciò la bellezza di alcuni oggetti si estende a patrimonio dell’intera umanità.

Con il passare del tempo però la struttura secondo la quale viene classificato l’oggetto assume diversi caratteri all’interno della comunità terrestre, in quanto mutano le tendenze. Il motivo è che ciò che viene costantemente proposto alla collettività viene gradualmente percepito come proprio e diventa base dei canoni di bellezza di un’intera generazione. “L’arte, la musica, la moda e tante altre espressioni della creatività subiscono l’influsso del dominatore di turno…” diceva De Crescenzo in “Storia della filosofia greca. I presocratici”. E con ciò ci dimostrava l’influenzabilità dell’essere umano rispetto al mondo che lo circonda. Il che può comportare un’apertura mentale nelle persone inclini, ma in altri una restrizione totale del campo di considerazione  entro i limiti posti dalla società.

Adesso che si sono portati tutti gli esseri umani ad anonimi soggetti mossi dal mercato e dal passato in comune, cosa invece rende la bellezza così sfaccettata e singolare per ogni individuo?  Sicuramente le esperienze di ognuno di noi, il che ci porta all’immediata constatazione che il concetto di bellezza non cambia solo nel tempo della storia e di persona in persona, ma anche nel tempo della persona.

Il secondo canone che ci differenzia è la morale, conseguenza dell’esperienza. Questa è la componente razionale che ci condiziona nella selezione di ciò che è bello, ed è quindi il principale motivo del decadimento di molti “codici arbitrari”. Tali codici sono costituiti da influssi artistici, generatori a volte di vere e proprie correnti, alcuni dei quali sono stati confinati da un decadimento in quanto non riscontrarono l’apprezzamento del pubblico. L’arbitrarietà dei codici ha infatti portato alla creazione di numerose correnti destinate ad ardere in fretta, prive di ossigeno. Troppo discostate dalla bellezza comune del tempo e del luogo o moralmente lontane dalla massa. Sono entrambi motivi validi perché svariati codici arbitrari siano stati tanto effimeri.

Per ultimo, ma non meno importante, è l’appartenenza ad un albero genealogico ricco di ideali e di gusti che vanno a ricadere sull’individuo attraverso il DNA. In questo senso non è quindi la nostra capacità di riconoscere il bello riconducibile alla nostra persona, bensì il contrario. In quanto tutti gli elementi che ci hanno formati si esplicitano nella contentezza di fronte ad un oggetto, ed è questa nostra prospettiva di vedere le cose che plasma il nostro carattere.

Noi siamo, in quanto umani,  figli dei nostri padri e del mondo.