ANALISI DELLA SITUAZIONE IN UCRAINA
Di Riccardo Bernardinis
Mentre la guerra in Ucraina prosegue, mi è parso necessario fare il punto della situazione al momento in cui scrivo e analizzare le conseguenze che il conflitto in corso potrà avere sulle potenze interessate. Al fronte la situazione resta incerta: le truppe ucraine hanno difeso brillantemente la capitale Kiev, lanciando un contrattacco che ha obbligato i russi ad abbandonare l’offensiva sul nord del paese per concentrare le proprie forze a sud e nel Donbass. Nel mare d’Azov la flotta russa, a seguito dell’affondamento della nave ammiraglia e di altre undici navi da guerra (secondo le fonti ucraine), ha deciso di cambiare posizione spostandosi verso Odessa, città pesantemente fortificata dagli ucraini, al punto che, secondo esperti militari, un attacco russo potrebbe portare a una nuova Stalingrado. Nel frattempo, gli ucraini lanciano un’altra controffensiva a Kherson arrivando fino al confine russo, costringendo i russi a spostarsi verso il Donbass, dove tutt’oggi si combatte, mentre nelle periferie a nord di Kiev, precedentemente occupate dai russi, si scoprono sempre più fosse comuni di civili e crimini di guerra perpetrati sia dai russi che dai mercenari ceceni al soldo di Mosca. Ma la guerra non si combatte solo sul campo. Se sono gli ucraini a versare il proprio sangue per la loro patria, è l’Occidente ad affrontare economicamente e strategicamente la Russia, tramite le sanzioni e l’invio di armi in Ucraina. La NATO, che Putin sperava di cogliere impreparata, si è invece dimostrata compatta a favore degli ucraini, con gli americani che gestiscono lo sforzo comune contro la Russia. L’aggressione russa ha dato alla NATO nuova ragion d’essere e, pur con qualche attrito interno (Italia e Germania sono più restie a dichiarare l’embargo a Mosca) l’Alleanza Atlantica si è rianimata, dichiarando l’appoggio incondizionato a Zelensky. Putin certamente non se lo aspettava e ora, visto il disastro delle truppe di Mosca sul fronte Nord, tenta di salvare almeno la faccia concentrando le sue armate a Sud e affermando che non parlerà di cessate il fuoco senza aver ottenuto il Donbass e la regione sul mare d’Azov, dove si trova quella che è stata la vera spina nel fianco del presidente: Mariupol. La città, completamente rasa al suolo dai missili russi, ha opposto un’accanita resistenza nei tunnel sotterranei delle acciaierie Azovstal, dove il battaglione nazionalista Azov ha dimostrato di potersi difendere, anche se la forte mancanza di viveri e medicinali inizia a farsi sentire (e porterà il battaglione, i cui mebri sono ormai eroi nazionali, a una quasi sicura resa). Oltre alle difficoltà sul campo causate da una scarsa preparazione, poca esperienza militare di soldati e comandanti e pessima amministrazione delle truppe, Mosca deve fare i conti con il mondo Occidentale coalizzato contro di lei, anche territorialmente: con l’ormai quasi certa entrata nella NATO di Svezia e Finlandia la Russia si troverà sempre più circondata sul fronte occidentale. Per tentare di far fronte a ciò, diversi leader russi hanno minacciato esplicitamente entrambi i Paesi di gravi ritorsioni. Molto probabilmente sono solo parole al vento: come riportato sul numero di Limes di questo mese e come più volte affermando da analisti geopolitici come Dario Fabbri, la Russia non dispone delle risorse economiche e militari per un attacco su tre fronti, essendo già impantanata in Ucraina (ha dovuto spostare i suoi militari dal Medio Oriente per mancanza di fondi), e dovrebbe fare i conti con l’intervento militare della NATO in persona, nel caso Svezia e Finlandia vi fossero intanto entrate. Senza contare che le sanzioni hanno iniziato a fare effetto: Mosca può ormai dire addio ai progressi fatti dagli anni ‘90: deve affrontare la peggiore recessione economica dalla caduta dell’URSS e, come se non bastasse, ha dovuto chiudere la Banca Centrale Russa per evitare che fallisse, provocando il default del paese, senza contare che diversi introiti fondamentali non raggiungono più la Federazione, poiché i vari paesi europei stanno cominciando, anche se lentamente, a staccarsi dalla dipendenza dal gas russo. Tra questi c’è anche l’Italia, che ha firmato importanti contratti con la Libia, sfruttando un gasdotto preesistente, e con l’Algeria. Ci vorrà tempo ma, forse, l’Occidente dichiarerà l’embargo energetico contro l’Orso, che sarà costretto a trovare altre soluzioni. L’autarchia non è certamente una di queste: oltre al gas, al petrolio e al grano, la Russia non ha nulla in grado di sostenere l’intero paese con standard di vita decenti. Mancherebbero infatti cosmetici, medicinali, vari prodotti alimentari e volare sarebbe pericoloso come durante l’epoca bolscevica, con aerei senza pezzi di ricambio e senza controlli di sicurezza. Di materiali proprio scadenti sono composti invece i mezzi dell’esercito russo, ed è questa una delle principali ragioni della sua difficoltà: la nave ammiraglia affondata, ad esempio, era stata costruita negli anni della Guerra Fredda, mentre moltissimi carri armati (anch’essi di epoca sovietica) hanno guasti continui o funzionano male. In altre parole, alla Russia mancano mezzi moderni, in ogni campo, e non ha i soldi per procurarseli e mantenerli operativi ed è su questo che punta la NATO per indebolirla, bloccandole ogni accesso economico e pratico alle moderne tecnologie.
Ma il vero problema è che Putin non può più fermarsi. Per lui questo è un lungo incubo: l’Ucraina non dovrebbe poter resistere, la NATO non dovrebbe essere così unita, le sanzioni non dovrebbero essere così potenti. Subire una sconfitta per una nazione che fa del patriottismo la propria base potrebbe portare a una possibile destituzione dello “zar”, nonché il colpo di grazia a ogni orgoglio nazionale e, nel lungo periodo, alla perdita di influenza sull’est Europa, su cui l’Orso lavorava. Tuttavia le trattative sono viste come una sconfitta, si badi bene. La Russia ha sempre ostentato la propria presunta potenza militare, potenza che si è scontrata con la dura realtà di non essere sufficiente, anche contro un Paese palesemente svantaggiato in partenza, seppur rifornito dall’Occidente. Ogni giorno che passa mette sempre più in evidenza una nazione debole con un leader sempre più in difficoltà nel gestire la situazione: la minaccia nucleare e il preteso pagamento in rubli del gas sono segni della disperazione del dittatore, abbandonato da gran parte dei suoi oligarchi e costretto ad affrontare una crisi economica durissima, il tutto senza poter interrompere la guerra, se ci tiene al suo posto al Cremlino. Un compromesso con l’Ucraina sarebbe catastrofico per l’immagine del Paese, costretto alla pace da un suo ex suddito che pensava di sottomettere in pochi giorni. Questo comunque non significa che la Russia non otterrebbe qualcosa, come ad esempio i territori richiesti (anche se l’Occidente e perfino la Cina auspicano per la conservazione dell’integrità territoriale ucraina), ma finché non ci sarà una seria apertura al dialogo da parte di Putin, di pace, purtroppo, è inutile parlare.
Una delle nazioni, invece, più impegnata nella diplomazia per una cessazione pacifica del conflitto è sicuramente la Turchia. Non bisogna, però, credere che il presidente Erdogan sia un fervente pacifista di per sé. La Turchia è sempre stata molto impegnata a diventare e restare una potenza regionale sul Mar Nero e in Asia Minore, ha chiesto di entrare nell’UE (per ora senza riuscirci) ed è uno dei paesi strategicamente più importanti della NATO (i missili nucleari statunitensi che scatenarono la crisi cubana si trovavano lì). La Turchia, inoltre, ha sempre duellato con la Grecia per la supremazia nel Mediterraneo Orientale e si è impegnata a espandere la propria influenza nel Mar Nero grazie al controllo dello stretto dei Dardanelli. Dopo tanta fatica per ottenere lo status di potenza in questi territori, sicuramente Erdogan mal sopporterebbe una presenza russa sempre più ingombrante nel mar Nero, per cui spinge a una pace che assicuri all’Ucraina l’integrità territoriale.
L’UE è, in questo momento, chiamata a fare da scudo contro i russi, dal momento che l’unica salvezza dell’Orso sta nella dipendenza europea dal suo gas. Quest’ultima, però, come già detto, svanirà presto, o perlomeno in tempi troppo brevi per permettere alla Russia di costruire le varie infrastrutture che le permetteranno di sopperire, almeno teoricamente, a questa mancanza, diventando la stazione di benzina e il granaio della Cina. Putin avrebbe dovuto saperlo, imparare dagli errori commessi dal predecessore Boris Eltsin durante la prima guerra cecena, che causarono la crisi economica che lo destituì. Per sua fortuna la Russia è pronta a diventare isolata: nell’ideologia russa permane un senso di minaccia proveniente dal mondo esterno che spinge la popolazione a prepararsi anche per una guerra a lungo termine, nonché a sopportare perdite semplicemente inaccettabili per ogni altro paese ( nella Seconda guerra mondiale la Russia ha avuto più morti delle potenze dell’Asse messe insieme), anche perché (non va dimenticato) bombardati come sono dalla propaganda putiniana, i russi non si rendono conto di aver iniziato un’avventura che potrebbe portarli alla rovina: la politica americana, a partire dal crollo dell’URSS, è stata quella di non umiliare la Russia nè di rinfacciarle l’abisso in cui era sprofondata, questo sotto George Bush padre. A partire dalla presidenza di Clinton fino a oggi, invece, gli Stati Uniti hanno ripreso una linea poco pacificante sia con l’antico rivale che con la nascente potenza cinese. Le spinte americane hanno creato un rapporto sempre più stretto tra Mosca e Pechino.
Un abbraccio però, che potrebbe essere fatale per Putin, a dimostrazione del fatto che due autocrati non debbano per forza andare d’accordo: con la futura perdita dei mercati europei, infatti, la Russia dovrà ripiegare sul suo alleato cinese, il quale non fa nulla gratis: nel sistema globale di prestiti tra Paesi la maggior parte degli stati del mondo non darà più soldi alla Russia, già esclusa dallo SWIFT, e a quel punto la Cina avrà la sua occasione di colpire, in un discorso che suonerebbe circa così: “Cara Russia, nessuno ti presta più i soldi di cui hai bisogno? Non c’è problema, ci penso io! Tu, però, mi dai in cambio il tuo gas e il tuo petrolio a prezzi irrisori, oppure direttamente le tue aziende estrattive. Se non ti va bene, niente soldi: scegli tu…” La politica americana, in pratica, ha dato l’Orso in pasto al Dragone e, anche se Putin si ostina a negarlo, è innegabile che abbia bisogno di molti soldi. La Cina è un enorme consumatore di risorse che deve importare, ed è quindi logico che ottenerle a costo quasi zero da un alleato ridotto al vassallaggio grazie alla sua crisi economica post-sanzioni faccia gola a Pechino, alla faccia dell’amicizia. Questo non significa, però, che la Cina voglia vedere la Russia andare in Default, anzi. Se la Russia dovesse diventare al 100% dipendente dal gigante asiatico la Cina si troverebbe da sola ad affrontare il mondo occidentale, ora più unito che mai. Una prospettiva che a Pechino non piace per nulla, ed è per questo che la Cina è stata uno dei paesi astenuti in merito alle sanzioni occidentali contro Putin.
Gli Stati Uniti, invece, hanno tutto da guadagnare da questa guerra: sono indipendenti dalla Russia in ogni campo e pianificano di aumentare le loro esportazioni di gas in Europa, facendo crescere l’industria energetica locale. Politicamente, inoltre, Biden vedrebbe confermata sia la leadership del suo paese sullo scacchiere mondiale sia la credibilità agli occhi degli alleati atlantici, con l’indebolimento del suo vecchio avversario. Verrebbe logica la conclusione che gli USA stiano usando l’Europa per fare il lavoro sporco in economia, lasciando gli alleati oltreoceano ad affrontare le inevitabili ripercussioni (seppur esponenzialmente minori rispetto a quelle russe) delle sanzioni, ed in parte è così: il Vecchio Continente subirà certamente una regressione economica rispetto al periodo precedente alla guerra, ma nonostante ciò non bisogna mai dimenticare che, parlando per la nostra penisola, se l’Italia è oggi la settima potenza economica mondiale è anche grazie al piano Marshall statunitense, che ha aiutato l’Italia, potenza sconfitta, a riprendersi dalla guerra. Ma anche a livello europeo ciò è accaduto: in linea generale i Paesi sotto influenza americana sono Paesi prosperi o che hanno subito una grande crescita economica. Questi ultimi sono gli Stati dell’Est Europa dell’ex Patto di Varsavia, i quali, non a caso, sono tutti nella NATO, e questo non perché amassero alla follia l’America, ma semplicemente perché i russi si erano comportati più da occupanti che da alleati nei loro confronti ai tempi dell’URSS, bloccando con i carri armati ogni iniziativa indipendente. L’ingerenza americana in campo internazionale è vista come un piccolo prezzo da pagare per una situazione economica e politica stabile e perfino la Francia, da sempre indipendentista in ogni campo, è costretta ad ammetterlo. Voglio a questo proposito riportare un aneddoto storico: circa trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la Francia di De Gaulle chiese agli Stati Uniti la rimozione di tutte le basi e le truppe americane sul suo territorio. L’allora presidente americano, in tutta risposta, chiese ai francesi se, insieme alle truppe, avesse dovuto portare via anche le tombe in Normandia: la questione finì lì. L’America, in sostanza, ha versato un prezzo enorme per l’Europa negli anni ‘40 e ha preteso qualcosa in cambio. La sua influenza in Europa è ormai accettata e il continente si è di fatto abituato alla presenza degli americani. Questo non significa, in ogni caso, che gli Stati europei siano semplici burattini degli Stati Uniti: la Germania, per esempio, in questo momento sta puntando al riarmo dopo la Seconda guerra mondiale (con qualche segnale di irritazione da Washington), con tempi più stretti a causa dell’invasione russa, e questo per il Belpaese è positivo: i tedeschi, infatti, puntano sull’acquisto dei caccia Tempest, progetto sul quale lavoravano Italia e Regno Unito e invece accantonato dalla Francia, incrementando le nostre entrate.
La situazione, insomma, è sempre più complessa: personalmente non saprei dire come finirà. Spero solo di aver contribuito a una lettura completa della situazione in Ucraina, con la speranza che la pace torni presto.
Bibliografia
- Limes, rivista mensile italiana di geopolitica, numeri 4, 5 e 6 dell’anno 2022; numero 11 dell’anno 2021
- Domino, rivista mensile italiana di geopolitica, numero 1 dell’anno 2022.
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