Di Riccardo Bernardinis

Le onde del terremoto geopolitico innescato dall’invasione russa in Ucraina iniziano ad essere avvertite su scala globale. Tra l’Europa che lotta contro il costo dell’energia, la Cina che si lancia alla conquista del ruolo egemonico in Asia centrale dopo il collasso russo, Putin all’angolo che minaccia l’uso dell’atomica e gli Stati Uniti impegnati nella gestione del mondo occidentale in seguito alle elezioni di metà mandato, c’è molta carne al fuoco.
Per comprendere uno scenario geopolitico così complesso è indispensabile partire dalle basi, ossia dall’Ucraina, dove la situazione è in una fase  di profondo cambiamento: la controffensiva di Kiev, iniziata a Settembre grazie all’afflusso nel paese degli armamenti occidentali, ha conseguito e sta conseguendo significativi successi (recentemente l’esercito ucraino ha riconquistato Kherson dopo aver  precedentemente ingannato le truppe russe ed aver ripreso Kharkiv) contro le forze dello zar Vladimir Putin, il cui paese sembra ogni giorno di più vicino al tracollo, economico ma non solo. Mosca, colpita dalle sanzioni internazionali che ne minano la sopravvivenza finanziaria, ha ormai perso credibilità, uomini e influenza. L’unico paese a rimanere, almeno ufficialmente, dalla parte dell’Orso è il suo espansionistico vicino Dragone, che sembra intenzionato a mutarsi in Avvoltoio. La Cina, alla cui guida è stato riconfermato per il terzo mandato il presidente Xi Jinping, è ormai in piena corsa verso l’Asia centrale, area nell’orbita russa fino ai disastri militari dell’ultimo mese, per far entrare la zona nella propria area di influenza, battendo sul tempo gli USA. La guerra, difatti, ha colto di sorpresa gli stati dell’area ex-sovietica, i quali hanno visto per la prima volta mettere in dubbio il preponderante ruolo russo in favore della Repubblica Popolare e hanno assistito a un mutamento dei rapporti tra le due potenze, senza scegliere, per ora, da che parte schierarsi.
Mosca, per parte sua, non è certamente intenzionata a mollare il proprio giardino. Gli -Stan sono infatti legati alla Federazione Russa da un duplice filo, economico e di sicurezza, come dimostra l’intervento militare russo in Kazakistan, poco prima dell’invasione, a sostegno del presidente Tokaev contro le proteste sollevatesi nel paese, e dalla costante presenza di imprese e aziende russe nei vari stati centro asiatici. La penetrazione cinese, tuttavia, è parimenti innegabile: la necessità da parte della Russia di spostare risorse e uomini dagli -Stan in Ucraina ha certamente facilitato l’inserimento cinese nell’area, che si traduce nella visita del presidente Xi in Kazakistan, il primo viaggio intrapreso dal leader cinese dall’inizio della pandemia. Il colosso centrasiatico è infatti perno centrale per il controllo dell’area e banco di prova per testare un’alleanza sempre più scricchiolante tra le due potenze, messa a dura prova dall’invasione in Ucraina. La Repubblica Popolare, infatti, è il secondo partner economico di Astana, dopo la Russia e prima dell’Italia, e ne condivide le preoccupazioni: Pechino, inizialmente, aderiva alle aspettative ottimistiche di Mosca riguardo a una netta e rapida vittoria russa e pertanto si fregava le mani nella prospettiva di un duro colpo assestato dal suo alleato al nemico occidentale. Ora che il destino dell’avventura russa in Ucraina pare segnato, tuttavia, i toni all’interno del Partito Comunista Cinese si sono raffreddati. La Cina, consapevole dei danni che il prolungarsi del conflitto causerebbe alla sua posizione geopolitica e soprattutto alla cosiddetta “nuova via della seta” (ossia l’iniziativa strategica di migliorare il suo sistema di interscambi commerciali con i paesi eurasiatici, area Mediterranea in testa) ha parzialmente fatto marcia indietro e il Kazakistan con lei: Tokaev, pur consapevole del peso economico di Mosca nel suo paese e di far parte del cosiddetto “Russkij mir”, ha approvato le sanzioni alla Russia per evitare di incorrere nello stesso destino e non ha riconosciuto le annessioni russe tramite i referendum farsa del 28 settembre. Anche se il già presidente russo Dmitrij Medvedev ha ricordato, a fine estate, che il Kazakistan potrebbe essere il prossimo bersaglio del Cremlino una volta chiusa la partita con Kiev, il paese non ha invertito la rotta e a Mosca si è urlato, ma neppure tanto.
Pechino, per parte sua, ha invece votato contro le sanzioni economiche al Cremlino, ma non ha riconosciuto le sue annessioni e ha più volte invitato l’alleato a scendere a più miti consigli. Xi ha già fin troppi problemi per potersi preoccupare anche di sostenere una Russia sempre più insostenibile. La Cina, infatti, deve affrontare un momento difficile, in cui si intrecciano diverse problematiche: dal 2008, anno della grande crisi economica occidentale, la Cina aveva visto il momento come l’opportunità per dimostrare la propria superiorità economica e politica, e le ambizioni cinesi furono raggiunte grazie a una vertiginosa crescita economica e alla riuscita delle Olimpiadi di Pechino. L’espansione cinese si tradusse inoltre nell’insediamento di sue imprese in varie parti del globo, soprattutto in Africa, dove Pechino coltiva oggi il sogno dell’“Africa gialla”, ossia sottoposta ai suoi interessi e sfruttabile come manodopera a basso prezzo per l’acquisizione di minerali preziosi e importanti materiali tecnologici, come il coltan (fondamentale per la produzione di telefonia). La Cina, tuttavia, sottovalutò l’inquietudine causata dalla sua crescita aggressiva nei paesi limitrofi e si inimicò, nel lungo periodo, diversi attori politici asiatici (primi tra tutti India e Giappone) che si rifugiarono fra le braccia di Washington.
L’errore commesso dal Dragone consiste nel non aver saputo rendere appetibile il proprio sistema ai dirimpettai asiatici e aver lasciato libertà di manovra agli americani, ritrovandosi strategicamente circondata dagli alleati degli Stati Uniti. Il secondo e più evidente passo falso è invece stato compiuto nel 2020, allo scoppio della pandemia. Mentre il Covid si propagava rapidamente in Occidente, infatti, il sistema cinese, basato su continui controlli e tolleranza zero dei casi, pareva essere il giusto approccio contro il virus. Il Partito Comunista trasformò allora il Covid in una questione ideologica, per esaltare la Cina a dispetto degli occidentali, incapaci di applicare le stesse  asfissianti limitazioni e per questo giudicati inefficienti dai cinesi  La situazione, tuttavia, mutò radicalmente negli anni successivi: l’Occidente, infatti, riuscì a produrre un vaccino sicuro ed efficace e a sviluppare una immunità di gregge (rendendo il Covid una specie di influenza stagionale), mentre i cinesi arrancavano tentando di tenere il passo del rivale. In Cina, infatti, il sistema a tolleranza zero non ha permesso lo sviluppo di un’immunità collettiva e il vaccino ideato da Pechino è lontano anni luce dagli standard occidentali. Ma ormai non si può fare marcia indietro: accettare di acquistare i vaccini americani ed europei equivarrebbe ad ammettere la sconfit
ta.
I problemi cinesi non si limitano tuttavia a quelli strategici o di politica estera, ma sono soprattutto interni. L’economia interna cinese, difatti, non gode di buona salute, almeno al momento: la contrazione dei consumi, l’eccessivo indebitamento, la deflagrazione della bolla immobiliare e i limiti di accesso ai mercati hanno compromesso quarant’anni di crescita, tanto che nel 2021 la crescita del PIL cinese si è arrestata, mentre quella di alcuni paesi europei (Italia in testa,con una crescita del 6,6 %) ha per la prima volta superato quella di Pechino. In questo mare di difficoltà, il capitano Xi si trova anche senza primi ufficiali affidabili: la Russia è al totale collasso dopo la disastrosa invasione dell’Ucraina, la Corea del Nord è troppo imprevedibile per essere anche solo presa in considerazione come alleato stabile e l’Iran degli ayatollah è in bilico a causa delle rivolte scoppiate il 16 settembre scorso. In questo contesto si può vedere quale sia la vera natura della strana coppia Russia-Cina: Pechino, infatti, ha sostenuto Putin solo con vuota retorica, senza rischiare di compromettere i rapporti con Stati Uniti e Unione Europea, per evitare qualunque effetto secondario delle sanzioni occidentali.  L’intesa tra i due, infatti, è sempre stata imposta dalla convenienza, per la presenza di un nemico comune, ma i cinesi sono gente pratica. La Repubblica Popolare ha quindi deciso di non buttare alle ortiche quanto di buono è stato fatto in termini di rapporto con gli occidentali solo per la scellerata avventura russa. La Russia è ormai più un peso che una risorsa agli occhi di Pechino: tutte le infrastrutture che consentirebbero a Mosca di esportare il proprio gas interamente in Cina non esistono ancora e servirebbero lunghi tempi per realizzarle, oltre che grandi investimenti.
La Russia, tuttavia, non ha i soldi per farlo e la Cina non è interessata a mettere in difficoltà la propria posizione già economicamente scomoda. L’invasione russa ha inoltre ridimensionato le ambizioni cinesi su Taiwan e questo è un fattore non di poco peso: un’invasione dell’isola è sempre possibile, si badi, ma meno probabile. Questo non soltanto per la materiale difficoltà di mettere in atto uno sbarco anfibio, ma anche e soprattutto per ragioni economiche e geopolitiche: la centralità di Taiwan nel settore dei semiconduttori è certamente una carta che Taipei potrebbe giocare, ma il problema principale è che la guerra impegnerebbe totalmente Pechino, mentre Washington potrebbe semplicemente armare Tokyo e Delhi a distanza di sicurezza, puntando sulla propria maggiore autonomia dalle importazioni, cosa che Pechino non può fare. Il caso Taiwan è per Pechino il più ostico da risolvere: in Cina attualmente l’etnia Han rappresenta il 95% della popolazione, ma in passato più della metà dei territori della Cina odierna apparteneva a minoranze etniche come mongoli, tibetani e uiguri. Una rinuncia a Taiwan sarebbe percepita come un riconoscimento di autonomia e potrebbe dunque generare spinte centrifughe all’interno della stessa Repubblica Popolare. Per il regime questo sarebbe catastrofico, anche perché non bisogna dimenticare che il Celeste Impero crollò proprio per questo motivo, in un paese che ha il cuore della propria politica nel potere centralizzato (non c’è da stupirsi di fronte alle repressioni delle manifestazioni indipendentiste a Hong Kong e nello Xinjiang). Una prospettiva che a Washington non dispiace affatto, e proprio gli Stati Uniti sono un altro protagonista fondamentale in questo scenario: dopo le infuocate elezioni di Midterm, conclusesi con un’inaspettata sconfitta di Trump, e la vittoria al Senato per i Democratici, la principale superpotenza globale valuta con cura le prossime mosse.
Con la Russia la partita è praticamente già vinta: le nette vittorie di Kiev sul campo e gli effetti delle sanzioni hanno annullato la minaccia che la Federazione può rappresentare per l’Occidente, salvo l’uso dell’atomica, sul piano militare e strategico. Sul piano energetico il discorso cambia: gli aumenti del prezzo del gas e dell’energia, oltre al recente danneggiamento del condotto Nord Stream da parte di ignoti, stanno infatti compromettendo la crescita economica degli alleati atlantici e minando la coesione sociale all’interno degli stessi. Gli europei hanno allora dovuto ricorrere a massicci stoccaggi di gas, con risultati ottimi (la Germania ha circa l’80% di scorte disponibili, l’Italia il 90% e l’Austria il 100%), ma che vanno sempre visti in ottica annuale: questi sono ampiamente sfruttabili per questo inverno, ma lo stesso discorso non vale necessariamente per il prossimo.
L’innalzamento dei prezzi è uno scenario possibile (quasi certo, a dirla tutta) ma, guardando al bicchiere mezzo pieno, per l’Europa questa è una storica occasione per differenziare in modo massiccio le proprie importazioni energetiche. Il nostro paese, già da prima della guerra dipendente in maniera minore dal gas russo, si è mosso con velocità, firmando accordi con l’Algeria (e battendo sul tempo i rivali francesi), la Libia e la Tunisia, candidandosi insieme alla Turchia a possibile futuro ruolo di hub logistico per la distribuzione di gas in l’Europa, tramite i progetti di costruzione del rigassificatore di Piombino e lo sfruttamento di quelli di Porto Viro, Livorno e Panigaglia per incrementare i flussi in Sicilia e Calabria provenienti da Azerbaijan, Algeria e Libia ed esportare in Francia, Germania, Austria e Spagna.
L’occasione che ci si para davanti agli occhi è propizia: forte dei successi diplomatici di Mario Draghi, l’Italia può diventare attore protagonista in ambito energetico, superando gli altri paesi europei. La Germania è in grande crisi energetica, molto dipendente dal gas russo e dunque messa in difficoltà dagli eventi del Nord Stream, la Francia non ha buoni rapporti con i paesi africani esportatori di gas e la Spagna lamenta da tempo una carenza di rigassificatori. L’Italia ha dunque la possibilità di inserirsi in questo contesto con forza, sfruttando appieno l’opportunità offertaci dalla situazione geopolitica attuale. Questa possibile evoluzione degli eventi sarebbe favorevole anche a Washington: la priorità degli States, infatti, è attualmente non quella di sconfiggere totalmente Mosca, quanto piuttosto di controllare più saldamente l’Europa, nella quale è attualmente potenza egemone la Germania. Lo strapotere di Berlino, infatti, ha spinto Washington a spronare la coppia franco-italiana a tessere una tela di intricati rapporti finanziari e commerciali (la Germania è attualmente il primo partner commerciale del Belpaese): la speranza degli Stati Uniti e dei cugini d’oltralpe è quella di contenere Berlino e difendere il Mediterraneo dalle ambizioni turche. I passati screzi italo-francesi hanno infatti favorito la penetrazione turca in Libia ed Egitto, aree di particolare interesse per le due potenze; Roma condivide inoltre l’opinione moderata di Parigi sulla Russia, ossia una sconfitta non totale (come auspicato da Polonia e stati baltici) per un reinserimento dell’Orso nei rapporti di potenza europei. Una sfida difficile, che vedrà quasi certamente la Francia in posizione di superiorità, ma Roma non ha molta scelta e ha deciso di fare di necessità virtù, vedendo (a ragione) nella Francia il male minore. Il contenimento tedesco potrebbe avvenire, per mano degli americani questa volta, anche in un altro settore: quello automobilistico.
Dati alla mano, ad ottobre la Germania ha esportato in Cina circa l’83% delle proprie automobili. Una mossa a doppio taglio, che potrebbe diventare una zappa sui piedi per Berlino: questo mercato permette sì di ottenere cospicui profitti, ma se in futuro la tensione Washington-Pechino dovesse salire al punto da compromettere questo scambio i tedeschi sarebbero in enorme difficoltà nel riorganizzare il mercato automobilistico verso altri paesi, a causa appunto di un’ eccessiva dipendenza da Pechino, anche se tale possibilità è per ora remota.
La situazione geopolitica attuale è, insomma, intrinsecamente legata alle ambizioni e alle mosse delle grandi potenze. Resta da capire quale sviluppo degli eventi ne potrebbe derivare.
Bibliografia

  Francesco Sisci, “Pechino non sa più come prendere il mondo”, Limes,ottobre 2022

  Mauro De Bonis, “L’Asia centrale torna contendibile”, Limes,settembre 2022

  Giorgio Cuscito, “La strana coppia è in crisi”, Limes,settembre 2022

  Francesco Casarotto, “Perché chiamiamo Parigi”, Domino,settembre 2022

Ministero della transizione ecologica- Trans Adriatic Pipeline-Petroleum Economist, “Mappa dell’emancipazione europea dal gas russo” apparsa su Limes,ottobre 2022

Pascal Ausseur, “Francia e Italia avanguardie europee nel Mediterraneo”, Limes, agosto 2022