di Marcello Rossi
L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che il focolaio internazionale di infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2 può essere considerato una pandemia. Per definizione, una malattia effettua il passaggio dallo stato epidemico a quello pandemico quando ha un’elevata trasmissibilità nella specie umana e viene a contatto con popolazioni che precedentemente non avevano contratto quell’infezione. Ma come nasce una pandemia?
Gran parte delle malattie pandemiche sono nate da popolazioni di animali, colpite da nuovi virus, che hanno poi infettato l’uomo con agenti che sono in grado di essere trasmessi da uomo a uomo. Questo processo, definito zoonosi, colpisce tutte le zone del mondo (per esempio il morbo di Chagas in America Latina e le febbri di Ebola e di Lassa in Africa). Alla base dell’origine del nuovo coronavirus c’è, infatti, il fenomeno dello “spillover”, termine prestato dal vocabolario economico a quello scientifico: rappresenta il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite all’altra, in questo caso da animale a uomo. Fra i più probabili serbatoi del virus SARS-CoV-2 ci sono alcune specie di chirotteri (pipistrelli), ma rimane aperta anche l’ipotesi che a facilitarne la diffusione come ‘ospiti intermedi’ siano stati i pangolini.
Il nuovo report del Wwf Italia, dal titolo “Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi – Tutelare la salute umana conservando la biodiversità“, ipotizza che i cambiamenti di uso del suolo e la distruzione di habitat naturali come le foreste siano responsabili dell’insorgenza di almeno la metà delle zoonosi emergenti. La distruzione di habitat e di biodiversità provocata dall’uomo, infatti, rompe gli equilibri ecologici in grado di contrastare i microrganismi responsabili di alcune malattie e crea condizioni favorevoli alla loro diffusione.
Un esempio è quello delle foreste incontaminate dell’Africa occidentale, in cui vivono alcuni pipistrelli portatori del virus Ebola. Il cambiamento di uso del territorio, la drammatica crescita della raccolta di carne di animali selvatici (bushmeat) e lo sviluppo di villaggi e altri insediamenti in territori prima selvaggi, hanno portato la popolazione umana a un contatto più stretto con nuovi virus, favorendo le zoonosi. L’Ebola, scoperta nel 1976, prende il nome dalla valle dove scoppiò l’epidemia, nella repubblica Democratica del Congo: è la rappresentazione perfetta di ambiente incontaminato in cui l’avvento dell’uomo è responsabile dell’insorgenza di nuove zoonosi, in questo caso specifico molto gravi per l’uomo, con un tasso di mortalità nell’anno della nascita dell’88%. Solo negli ultimi anni sono stati sviluppati alcuni vaccini in grado di prevenire l’infezione, ma non c’è ancora stata una adeguata somministrazione nei paesi africani più poveri e soggetti al contagio.
Il report del Wwf evidenzia in modo inequivocabile come l’impatto crescente dell’uomo su ecosistemi e specie selvatiche, amplificato dagli effetti dei cambiamenti climatici, aumenti la nostra esposizione a rischi come quelli che stiamo vivendo con l’emergenza del SARS-CoV-2: è quindi fondamentale agire subito per fermare l’emorragia ambientale che ha subito una drammatica accelerazione negli ultimi decenni.
Proteggere gli ecosistemi naturali, conservare le aree incontaminate del pianeta e contrastare il consumo e il traffico di specie selvatiche sarebbero alcune tra le principali funzioni di un New Deal for Nature, proposto dal presidente del WWF Italia Donatella Bianchi. Le prime iniziative da prendere, però, riguardano la ricostruzione degli ecosistemi distrutti, rete di protezione naturale da zoonosi.
SARS-CoV-2: QUALI SONO I RISCHI PER LA SALUTE?
L’epidemia di COVID-19 si caratterizza, rispetto al raffreddore e all’influenza, per una maggiore percentuale (circa il 28,8% dei casi) di sintomi respiratori gravi, fino all’insufficienza respiratoria e alla necessità di ricorrere a cure di terapia intensiva. Come mostra la seguente infografica dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che riporta i dati aggiornati al 24 aprile 2020, nel nostro Paese il tasso di letalità (proporzione di decessi dovuti a una malattia sul totale di persone affette da quella malattia) aumenta con l’età: 0,9-2,6% nella fascia di età 40-59 anni, del 9,9% tra 59 e 69 anni, del 24,5% tra 70 e 79 anni e del 30% per i pazienti tra 80 e 90 anni.
I dati di qualche settimana fa, relativi anche alla situazione cinese, facevano sperare in un tasso di letalità di circa il 2,8%, molto più basso di quello registrato in passato per le infezioni da SARS (con un tasso di letalità del 10%) e della MERS (circa 32%). Tuttavia, i dati attuali dimostrano che per alcune persone (anziani, persone immunodepresse o affette da malattie croniche respiratorie e cardiocircolatorie) il tasso di letalità è superiore. Questi dati sono in continua evoluzione e questo aumento del tasso di letalità rispetto a quanto atteso potrebbe essere in parte dovuto a due fattori. Primo, il tasso di letalità è calcolato sul totale dei casi positivi, il cui dato reale potrebbe essere fino a 10 volte, secondo Carlo Signorelli (docente Università San Raffaele di Milano), superiore a quello effettivamente rilevato; i tamponi vengono oggi eseguiti solo su chi presenta sintomi evidenti, lasciando fuori dal computo chi è asintomatico (perché non ha sintomi o non li ha ancora sviluppati).
Secondo, l’età è un fattore di rischio e nel 2019 la popolazione italiana è risultata, in Europa, quella con la maggiore percentuale di persone al di sopra dei 65 anni (22,7%); questo potrebbe porre in nostro Paese in una situazione di maggiore “fragilità”. È necessario, pertanto, adottare comportamenti che tutelino le fasce d’età più a rischio. I dati attuali indicano che l’età mediana dei casi positivi è 62 anni, con il 27,2% dei positivi tra i 19 e i 50 anni e solo l’1,8% dei casi al di sotto dei 19 anni. Le minori percentuali rilevate tra i giovani potrebbero essere dovute al fatto che i giovani sviluppano sintomi meno gravi e quindi non vengono testati per il coronavirus; questo non significa però che non siano contagiosi. Le raccomandazioni a mantenere le distanze di sicurezza valgono quindi per chiunque, indipendentemente dall’età.
Oltre a proteggere le fasce più a rischio, il rispetto dei decreti promulgati dal governo ha l’obiettivo di evitare di mettere sotto pressione il sistema sanitario, già molto provato dalle ultime settimane di emergenza. Da un lato, aumenta di giorno in giorno il numero di persone che necessita di cure ospedaliere nei reparti di terapia intensiva, già sovraffollati dai pazienti ricoverati nelle ultime settimane. Dall’altro, rischiano di diminuire le risorse umane che il sistema sanitario può mettere in campo. A preoccupare è, in particolare, il numero di operatori sanitari positivi (nella sola Lombardia già 4183 lo scorso 5 aprile, da dichiarazione del sindaco di Bergamo Giorgio Gori). Queste sono le persone più esposte al rischio di contagio e, allo stesso tempo, quelle su cui il sistema sanitario fa affidamento per arginare l’emergenza.
Bibliografia:
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Infografica_24aprile%20ITA.pdf;
http://www.treccani.it/enciclopedia/spillover;
http://www.treccani.it/enciclopedia/zoonosi;
http://www.treccani.it/enciclopedia/pandemia_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/;
https://www.focus.it/scienza/salute/virus-ebola-lincredibile-storia-della-sua-scoperta;
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Infografica_19marzo%20ITA.pdf;
Dichiarazioni di Signorelli prese dal Corriere della Sera del 22 marzo 2020.
Operatori sanitari positivi: https://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2020/04/05/gori-medici-contagiati-lombardia-qualcosa-andato-storto_r4yrYNoRwwKcgX5sqmJhgJ.html.
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