di Vittorio Romano

Dall’inizio del secondo dopoguerra, l’Italia viene rappresentata nel mondo delle moto da un’assoluta eccellenza, con una storia vincente sotto tutti i punti di vista: la Ducati. Il primo modello di motocicletta venne progettato nel 1946, la Ducati Cucciolo, che era però poco più di una bicicletta con un motore. Da quel momento in poi, Ducati iniziò a sfornare sempre nuovi modelli, affermandosi sempre di più nel panorama motociclistico mondiale. Oggi l’azienda è parte del gruppo Audi/Volkswagen, dato che nel 2012 è stata comprata da Lamborghini, che fa parte del gruppo tedesco.
Ducati da tempo partecipa ai due campionati motociclistici più importanti del mondo: la superbike, ovvero gare con moto elaborate la cui base di partenza sono le normali moto stradali, e la MotoGP, che invece riguarda esclusivamente i prototipi fatti apposta per gareggiare. In superbike, la Ducati è sempre stata un punto di riferimento, vincendo 17 campionati tra il 1991 e il 2011, nonostante l’azienda italiana sia molto più piccola rispetto ai giganti giapponesi come Yamaha, Kawasaki e Honda. Principali fattori di questo dominio tra le moto stradali furono il telaio a traliccio e la distribuzione desmodromica.
Il telaio a traliccio, introdotto per la prima volta su una Ducati del 1979, era un particolare tipo di telaio formato da un intreccio di tubi d’acciaio, che rendevano la moto più facile da guidare rispetto alle altre, che montavano prevalentemente un telaio a doppia trave, cioè formato da due supporti di alluminio laterali.
Nella distribuzione desmodromica, la valvola non viene richiusa con una molla (come di consueto), ma con un bilanciere, che consente giri motore più alti, e quindi maggiore potenza, senza rischi di fuorigiri e di rotture del motore; fu il celebre progettista Fabio Taglioni a portarlo in Ducati per la prima volta nel 1956 e a renderlo negli anni successivi il principale marchio tecnico della casa bolognese. Dopo il 2011, però, questi due elementi stavano diventando obsoleti, perciò Ducati iniziò a perdere terreno nei confronti delle avversarie: serviva una svolta tecnica mai vista prima in azienda. Era un salto nel buio: bisognava abbandonare vecchi concetti, che avevano reso la Ducati una delle moto più forti del mondo, per abbracciarne di nuovi, acerbi, ignoti, con il rischio che non pagassero. Che fare?
Nel frattempo, Ducati decise di entrare nella classe MotoGP, costruendo un prototipo che denominò “desmosedici”. Fin da subito fu capace di cogliere buoni piazzamenti e persino qualche vittoria, finché nel 2007 arrivò la consacrazione: mondiale piloti (con il fenomeno australiano Casey Stoner) e costruttori, dopo un campionato impeccabile. Stoner arrivò vicino al titolo anche nel 2008 e nel 2009, ma l’italiano Valentino Rossi riuscì a prevalere entrambe le volte. Poi la Desmosedici ebbe un crollo prestazionale, tanto che anche Valentino Rossi, pilota Ducati del biennio 2011-12, definì “uno shock” la prima volta che salì su quella moto: era un cavallo imbizzarrito, con un motore impressionante ma complicatissimo da domare. Anche nei prototipi quindi serviva una rivoluzione totale, proprio come nelle moto di serie. Serviva una reazione da parte di Ducati.
E la reazione arrivò, così le strade dei prototipi e delle moto di serie si intrecciarono.
In SBK, dal 2013 agli equipaggi Ducati vennero fornite le Panigale 1199, simbolo della rinascita stradale, caratterizzate da un telaio monoscocca (ovvero un telaio composto da un unico elemento) in lega di alluminio ispirato proprio alle motogp. Dopo un primo anno di rodaggio la moto diventò una valida avversaria della Kawasaki guidata dal leggendario Jonathan Rea, che in quel momento era la coppia moto-pilota più forte in pista. Ducati sfiorò seriamente la vittoria nel 2019 con Alvaro Bautista e finalmente nel 2022 è tornata sul tetto del mondo, conquistando sia il campionato piloti che quello costruttori, successi entrambi ripetuti anche nel 2023, con un dominio totale.
In MotoGp la risalita ebbe inizio nel 2014, grazie al visionario ingegnere Dall’Igna, che fece capire che la strada da prendere era quella di un massiccio sviluppo aerodinamico. Ripartì così una lenta risalita, che diede i primi frutti nel 2016 con una strepitosa vittoria in Austria. Fu il preludio per un ritorno alla competitività mondiale: nel triennio successivo infatti è stato sfiorato il titolo piloti con l’italiano Dovizioso e finalmente nel 2020 il campionato costruttori torna alla casa bolognese: è l’inizio di un vero e proprio dominio. Negli ultimi quattro anni il mondiale costruttori è rimasto alla Ducati e negli ultimi due anni l’italiano Francesco Bagnaia è riuscito a laurearsi campione del mondo, con risultati storici da parte dei ducatisti.
Ducati, quindi, durante tutta la sua storia ha dimostrato di avere un DNA da vera moto racing, capace di vincere e dominare, come dimostrano i cicli di vittorie appena citati sia in MotoGP che in SBK, però si è soprattutto dimostrato un marchio coraggioso, che non ha paura di innovare e che riesce a staccarsi dalla sicurezza dei vecchi concetti per abbracciare nuove idee, rischiando anche che si rivelino fallimentari. È stata proprio questa, nella sua evoluzione, la grande forza di Ducati: il coraggio di innovare. Le moto giapponesi, invece, sono rimaste legate a vecchi concetti e vecchi campioni, perciò hanno iniziato un lungo declino che è culminato nella grande disfatta di Yamaha, Kawasaki e, soprattutto, Honda, una delle moto più vincenti di sempre che oggi ha risultati tutt’altro che esaltanti.
E, cosa più importante, Ducati è un simbolo dell’orgoglio italiano.

Fonti:
Wikipedia (Ducati Corse, Ducati, Luigi Dall’Igna, Ducati Panigale)
https://web.archive.org/web/20140814184254/https://www.gpone.it/archivio/news/febbraio02/fatto050202.htm
https://www.gazzetta.it/Moto/Superbike/13-11-2022/il-titolo-motogp-e-il-bis-in-superbike-perche-la-ducati-e-la-regina-del-mondo.shtml