“Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’.”

È così che faceva la canzone, no?

“E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò.”

Sì, sì, proprio quella; direi che fa al caso mio.

Mi piace pensare alle cose italiane quando non sono in Italia. Mi piace quel lieve sentore nostalgico che si infiltra sotto la pelle e fa pensare ad altri giorni passati in altri luoghi. Mi piace sentirmi legata anche io, qualche volta, al mio luogo natale, anche se la conditio sine qua non perché questo accada è che io vi sia lontana.

“Non ti manca l’Italia?” mi chiedono imperterriti questi danesi. “L’unica cosa che mi manca dell’Italia è la mia chitarra elettrica”, rispondevo ironicamente le prime volte. Mi piaceva vederli sorridere, anche se non era quello il mio obiettivo. Lo dicevo un po’ perchè mi mancava veramente, la mia chitarra, ma soprattutto per troncare la conversazione. Il mio rapporto con l’Italia è estremamente complicato, neppure io riesco a risolverlo completamente; l’impresa di provare a spiegarlo a queste testine bionde che pensano all’Italia come a un Paese del Bengodi dove ci sono solo pizza, arte e vino rosso mi sembra inutilmente tediosa.

Ma poi mi sono fatta spedire la mia chitarra dai miei genitori – te l’ho detto, mi mancava veramente! – e quindi, purtroppo, quell’uscita di emergenza si è sbarrata.

“Mi mancano alcune persone”, ho iniziato a rispondere allora, “ma non l’Italia.”

Ed è la verità. Preferirei portare quelle persone qua, piuttosto che tornare io.

Certo, ci sono alcuni dettagli, fondamentali o insignificanti, della vita in Italia che, se non proprio mi mancano, mi fanno sorridere a pensarci, e non mi dispiacerà riadottarli una volta rimpatriata.

Qui, ad esempio, è maleducazione soffiarsi il naso in pubblico: magari non ti sembrerà neanche una gran limitazione, ma se ci pensi noi lo facciamo d’abitudine, senza pensarci. Poi immagina che meraviglia quando gira l’influenza, e questi elementi vanno in giro smoccolando e tirando su, e chiedono scusa prima di chiudersi in bagno per liberarsi il setto nasale. Mi fanno morire dal ridere, te lo giuro. E adesso ogni volta che videochiamo un compatriota e vedo questi, di punto in bianco, sfoderare un fazzoletto e portarselo alla faccia, mi sembra un gesto ai limiti dell’eroico.

E poi la scuola, amico mio, è diametralmente opposta. Dal momento in cui ci metti piede dentro, hai la responsabilità di tutto. Innanzitutto in classe ognuno ha il suo portatile e va usato quasi sempre: scegliere se preferisci fare calcolo differenziale o giocare a tetris sta solo a te. Le giustificazioni te le fai da solo e vanno ora per ora, non a giornata: se vuoi distenderti sui divanetti a guardare Netflix e prenderti due ore di assenza al posto di fare educazione fisica, nessuno ti ferma (neanche la tua coscienza, te lo garantisco). Ci sono pochissime verifiche, che servono più da linee guida che da valutazioni. Eppure sono tutti così partecipi durante le lezioni! È strano. I professori li chiami per nome proprio e anche l’elenco degli alunni va in ordine alfabetico per nome, non per cognome. Sono stata la prima in elenco dalla prima media: mi piace, lo ammetto, mi piace tantissimo starmene nel mezzo, adesso.

Eppure non mi crogiolo quotidianamente in tutta questa libertà. Ogni tanto mi viene da sorridere a pensare alla scuola italiana, con tutte le sue restrizioni e rigidezze e complicanze e la sua burocrazia infinita; perchè delle volte, paradossalmente, è più semplice quel sistema di questo.

Se la mia prof leggesse questo in classe, ad alta voce, sono sicura che le facce di alcuni miei compagni si torcerebbero in smorfie di disgusto. Mi fa sorridere anche pensare a questo.

“L’uomo è condannato ad essere libero”, diceva Sartre. E tutta questa libertà di scelta ogni tanto mi disorienta, te lo garantisco. Ma non mi manca l’Italia, questo lo posso proprio dire.

A pochi fidatissimi ho tentato di spiegare veramente perchè: qui danno per scontati la carta igienica e i fazzoletti per asciugarsi le mani nei bagni, gli autobus ogni 10 minuti o due maschi che si tengono per mano nei corridoi della scuola. Quando dico che queste cose in Italia non ce le sogniamo neppure, liquidano la faccenda con uscite del tipo “ogni paese fa un po’ schifo a modo suo”. Non capiscono.

E allora ho smesso di spiegarlo. Mi manca un po’ la pizza, quella vera, ma questo non lo dico; e qualche mese di pizza inedibile non è la fine del mondo.

E poi come potrebbe mancarmi l’Italia, quando qui c’è questo cielo?

Non so come spiegartelo, amico mio, ma è qualcosa di incredibile. Vorrei che tu fossi qua, per fartelo vedere; è l’unico modo in cui riusciresti a capire cosa provo. Non fraintendermi, è bellissimo il cielo italiano: ma è diverso. Tutti i cieli sono diversi. Questo mi apre il cuore.

In Italia l’alba è arancione, o almeno lo è dall’abbaino di camera mia; qui è di un rosa accesissimo, come l’avessero ripassata con un evidenziatore.

Il sole, poi, per angolazioni astronomiche varie in cui preferisco non addentrarmi, è estremamente basso. Ci metti un po’ ad abituartici. Si staglia sulle facciate degli edifici con un’intensità inaspettata, si insinua nelle loro finestre gigantesche, inonda le stanze e si distende sulle pareti, tutte rigorosamente bianchissime. Non esistono le tende qua: ogni raggio di luce viene catturato avidamente. Questo perché il sole danese non è come il sole italiano; per prima cosa, non è caldo. A fine agosto mi mettevo già maglioncini e giacca di pelle, anche quando il cielo era limpidissimo.

Poi sta per conto suo. È schietto, il sole danese: non esce spessissimo, ma non esce mai a metà. Quando esce, però, fa in modo che tutti lo sappiano: il cielo si terge completamente, diventa così azzurro che sembra perdere una dimensione.

Mi chiedo se il sole influenzi le popolazioni. Mi spiego meglio: ogni tanto mi viene da pensare che il modo in cui le persone si comportano, nel senso proprio del loro comportamento intrinseco, spontaneo, sia determinato almeno in parte dal tipo di sole che c’è dove si trovano. Mi immagino il sole come una gigantesca bustina di tè e il cielo che smette di essere aria e diventa acqua e il sole che infonde tutte le sue proprietà in questo mare che in realtà è il cielo o forse lago non mare perchè se parliamo di tè è meglio che l’acqua sia dolce e poi non saprei di preciso cosa potremmo essere noi in questa metafora che comunque non funziona, ma ad ogni modo veniamo pervasi dalla sostanza del sole e… mi perdo, perdonami.

Sono belli anche i tramonti danesi, ma durano pochissimo; mi sa che preferisco i tramonti friulani, va detto.

Ma il momento della giornata che preferisco, senza ombra di dubbio, è quello che viene subito prima che il sole inizi a calare. Mi toglie il fiato ogni singolo giorno.

Potrei tentare di spiegartelo dicendoti che il sole diventa dorato, ma non sarebbe abbastanza: in realtà diventa oro, e trasforma in oro tutto ciò che tocca, un po’ come Re Mida, ma senza la tragedia.

Quello è l’unico momento in cui il sole danese diventa caldissimo, almeno in colore se non in temperatura, così caldo che sembra entrarti nelle ossa.

Non persiste a lungo, questo momento, ma è così terribilmente fiabesco.

E poi, quando le cortissime ore di luce finiscono, quasi nel primo pomeriggio adesso che è inverno, il cielo si tinge di un blu elettrico, accesissimo, e via via si fa più scuro.

La notte è viola, in Italia. A meno che non ci si impegni per allontanarsi da qualsiasi tipo di civilizzazione, sarà sempre almeno in parte illuminata. Qui, anche nel mezzo di una cittadina di trentamila abitanti, è nera come l’oblio.

E infine c’è la luna. Lei è l’unica che non cambia mai. Il punto fisso. Resta sempre la stessa, in qualsiasi angolo della terra. Ha sempre il suo lato illuminato che squarcia il cielo e il suo lato oscuro, il cui pensiero mi riempie di angoscia e meraviglia. Le stesse macchie, lo stesso colore, la stessa intensità. Lo stesso sorriso materno.

Fin da bambina, ho sempre pensato che il mondo fosse la mia città, e che mi sarei sentita a casa anche in luoghi che non erano, concretamente, casa mia; finora, questa predizione si è quasi sempre avverata. Ma, ciononostante, è sempre bello guardare in alto e sentirsi rassicurati; nel fare questo, la luna non mi ha mai delusa.

di Maria Barella, classe 4^C