A cura della classe 4D

Il confine orientale dell’Italia, cioè quello del Friuli-Venezia Giulia, dal 1915 è cambiato molte volte nel corso della sua storia, fino a raggiungere la sua massima estensione a est nel 1943, con l’annessione di Lubiana. Questo comportò l’ingresso di circa 900 mila uomini di diverse etnie in Friuli, a tal punto che il governo delle nuove città italiane, come Pola, decise di appendere insegne con scritto “Si parla solo italiano”. L’8 settembre del 1943 tutto cambiò: l’Italia uscì dall’Asse con l’Armistizio, generando lo scontento dei tedeschi, che occuparono il Nord Italia, e il successivo scontro con gli anglo-americani nell’Italia centrale. La situazione era talmente critica che il Re Vittorio Emanuele III decise di fuggire a Brindisi per evitare la cattura dei tedeschi. La popolazione, che si era illusa che la guerra fosse finalmente finita, prese atto che così non era. Il conflitto si trascinò ancora per più di un anno, fino alla primavera del 1945, trasformandosi in una sorta di guerra civile. Beppe Fenoglio in “Primavera di bellezza” (1959) raccontò l’8 settembre del 1943 dal punto di vista di un soldato: 

“E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”. 

Una volta finita la guerra, venne istituita la Linea Morgan dal 1945 al 1947 per segnare i nuovi confini della Venezia-Giulia. Nel 1947, col Trattato di Parigi, le zone A e B della Linea Morgan vennero abolite, creando il confine che tutti noi conosciamo.
Sul territorio friulano si vennero a creare diversi campi di internamento, dimenticati però dalla storia, e il campo di concentramento di Visco, un piccolo comune del Friuli Venezia Giulia situato sul confine, è uno di questi. Nato nel 1917 come campo profughi per gli sfollati della riva sinistra del Piave, diventò deposito d’artiglieria nel dopoguerra e nel 1943 prese definitivamente il titolo di “campo di concentramento”, con una superficie di 120.000 m2.
Nonostante ci siano molti negazionisti, ci sono diverse testimonianze a riguardo, come quelle di due internati di cui abbiamo raccolto le memorie in occasione di un incontro con gli studenti del liceo Copernico, e che qui riportiamo. La prima, ha per protagonista una ragazza croata, che fu arrestata in Dalmazia nel 1943 e con lei tutta la sua famiglia e altri signori del paese. La seconda ricostruisce invece la cattura di un altro ospite del campo, che vive ora a Lubiana. Venne arrestato dai collaborazionisti a Begunje, in Slovenia, nel 1941 insieme alla famiglia. Anche lui subì il solito protocollo: la casa bruciata, i trasferimenti di luogo in luogo e infine, nel 1943, all’età di 7 anni, venne internato. Saranno liberati dopo il 25 luglio. Entrambi i protagonisti hanno, però, anche sottolineato come nel campo fosse sempre rimasto quel velo di umanità che riuscì a evitare la morte dei bambini e a mantenere, almeno in parte, sempre viva la fiammella di speranza di tornare a vivere una vita normale in libertà. Ai giorni nostri la popolazione locale sta cercando di condividere queste storie, per evitare che Visco diventi inconsapevole di aver preso parte ad uno dei capitoli più drammatici della storia umana.
A pochi minuti da questo campo ne sorgeva un altro nella cittadina di Gonars, di cui però non restano che pochi muri e testimonianze, una è quella di Monica Emanuelli. Il campo fu costruito nella primavera del 1941, in previsione dell’arrivo di prigionieri di guerra russi, ma in questo senso non fu mai utilizzato. Nel marzo del 1942, invece, venne destinato all’internamento dei civili della cosiddetta “Provincia italiana di Lubiana” e come tutti gli altri campi fascisti per internati jugoslavi, funzionò fino al settembre del 1943, quando, con la capitolazione dell’esercito italiano, il contingente di guardia fuggì e gli internati furono lasciati liberi di andarsene. Nei mesi successivi, la popolazione di Gonars smantellò il campo utilizzando i materiali per altre costruzioni, come l’asilo infantile, o per l’approvvigionamento della popolazione locale. Il campo di Gonars, costruito appena fuori dall’abitato, è stato inoltre luogo di ispirazione artistica per i prigionieri, i quali hanno dipinto, scritto e inciso dentro alle celle nelle quali erano detenuti.
A chiudere il triangolo troviamo la Caserma Piave di Palmanova, che fu uno dei più importanti centri di repressione antipartigiana istituito dai nazisti per eliminare l’attività della Resistenza nella Bassa friulana. Tra i maggiori personaggi al comando della Caserma Piave, si ricordano Ernesto Ruggiero, Remigio Rebez, Odorico Borsatti e Herbert Packebusch. Alcuni vennero processati nel dopoguerra: in particolare, attraverso diverse testimonianze (soprattutto quella di Eugenio Morra su Silvio Marcuzzi “Montes”) possiamo analizzare e valutare nel dettaglio una delle più violente e controverse storie che attraversarono la regione nel periodo dell’occupazione nazista. Infatti, la Caserma Piave rappresentò un luogo di torture, omicidi e odio nei confronti di circa 500 partigiani, di cui 300 riuscirono a tornare a casa. Nonostante ciò, bisogna tenere in considerazione anche le vittime dei rastrellamenti nella Bassa friulana. Purtroppo, le vittime non ebbero mai giustizia, perché molti colpevoli non vennero mai processati: per questo motivo è fondamentale ricordare i crimini di guerra, in modo che questi fatti non si ripetano.