UN MESSAGGIO DI UMANITÀ
di Valentina Segatti
Il 23 marzo la nostra scuola ha ospitato lo scrittore afghano Fawad e Raufi. Egli nasce come un uomo di scienza: nella sua terra natale era un insegnante di biologia, ma fin da quando aveva 15 anni è solito esprimere i propri pensieri e i propri sentimenti con la scrittura. Ci racconta con un sorriso che scrisse il suo primo libro quando, proprio a 15 anni, si innamorò per la prima volta. Si laureò in agraria, ma poi decise di realizzare il suo sogno aprendo un autolavaggio. Il problema fu, però, che non sapeva come pagare il pizzo, e ciò fece sì che i poliziotti gli distruggessero il suo sogno appena realizzato. In Afghanistan non basta essere una persona onesta e non far del male a nessuno. Per essere al sicuro devi sapere da chi farti proteggere.
Decise allora di tentare un concorso per diventare un insegnante di biologia e riuscì ad avere il posto. Ci fu però un attentato che uccise molti dei suoi alunni.
Con questi ragazzi aveva un rapporto speciale: erano stati proprio loro che lo avevano accompagnato per la prima volta a vedere un museo, lui prima di allora non ne aveva mai visto uno. Ma la guerra significa anche questo: perdita della concezione della normalità. Fawad prima di arrivare in Italia non aveva mai visto il mare o un castello. Non era mai stato a guardare un film al cinema. Non aveva mai preso un treno o un mezzo di trasporto pubblico per spostarsi da una parte all’altra della sua Kabul.
Fawad ci ha descritto con tono sofferto la terribile situazione che la sua terra natale sta affrontando: l’Afghanistan è uno stato che non vede la pace da ormai più di 40 anni. La guerra ha distrutto tutto, ma i suoi effetti vanno ben oltre il tangibile. Lo scrittore ci racconta di un popolo che ha smesso di sognare e assaporare la vita. La guerra non ha distrutto solo gli edifici: a essere annientati sono stati anche i sogni e le ambizioni della gente, la vita e l’identità di un popolo.
Il futuro ha un sapore amaro, la speranza di un avvenire diverso dal proprio presente è un’illusione fuorviante per le persone del posto. In Afghanistan Fawad ci dice che nessuno pensa all’arte o al proprio futuro: tutto ciò passa in secondo piano se a essere messa in discussione è innanzitutto la vita. La sopravvivenza è ciò a cui si ambisce, perchè tanto c’è l’amaro timore che tutto sia destinato a essere distrutto dalla spietata guerra.
Fawad si era già allontanato dall’Afghanistan da ragazzino con la sua famiglia, per poi farvi ritorno quando la NATO aveva reso possibile il rientro.
Una volta tornato a Kabul l’unica cosa che ha incontrato è stata però la distruzione.
I bambini afghani non disegnano case con le pareti dai colori variopinti, non colorano dei vivaci prati fioriti. Con i loro candore disegnano ciò che vedono: carri armati, militari armati, persone mutilate.
Ai bambini vengono insegnate le tabelline e l’alfabeto, ma viene insegnato loro anche a non toccare gli oggetti per strada, perché potrebbero essere delle bombe inesplose.
Il panorama non è che un mosaico di distruzione e desolazione: le case non hanno tetti, agli edifici mancano le travi, si vive in tende costruite sulle fondamenta delle stesse case.
Studenti senza banchi, solo sui tappeti, impossibilitati a studiare con la pioggia o con il sole. In guerra l’istruzione diventa marginale, ma ciò non fa che creare una società pronta ad accettare tutto. Un popolo senza un pensiero critico o la conoscenza di una realtà diversa dalla propria non cercherà mai di cambiare ciò che gli accade. Senza la cultura la gente è pronta ad accettare tutto.
Fawad è arrivato in Italia l’8 aprile del 2016, dopo un travagliato viaggio che l’ha portato ad attraversare più di 10 paesi. Prendendo una decisione sofferta ha deciso di partire. Ha abbandonato la sua famiglia, la sua lingua, i suoi amici, il suo lavoro, la sua casa, il suo passato. Ha abbandonato la sua vita in Afghanistan per la speranza di un futuro migliore, costellato di possibilità e fiducia nell’avvenire. È uscito senza visto, senza passaporto o biglietto di ritorno.
È ormai in Italia da 7 anni, ma la sua famiglia è ancora in Afghanistan. Ci racconta di come là la situazione sia ancora molto critica: le scuole sono chiuse e le donne sono limitate in ogni aspetto della loro vita: non possono lavorare, ma nemmeno continuare a studiare, perché, finite le elementari, devono rimanere in casa. La povertà è dilagante e mancano i servizi. Fawad definisce l’Afghanistan come “una prigione a cielo aperto”. Ormai essere afghano è un limite.
Fawad ci ha comunicato un bellissimo messaggio di umanità: nella nostra diversità dovremmo riuscire ad accettarci reciprocamente, sapendoci tutti riconoscere nella nostra umana fragilità. Lui è il primo ad ammettere che è stato difficile abituarsi a una nuova cultura, a una nuova lingua e a un nuovo stile di vita. Tutta questa diversità è il grande ostacolo che va superato, ma lui afferma la necessità di fare umanità, non comunità: seppur sia difficile, dobbiamo essere capaci di accettare l’altro. Egli racconta il suo desiderio di una “lingua che ci fa stare insieme”, una lingua originata dall’umanità e che è espressione di amore, rispetto, convivenza e umiltà.
La curiosità di Fawad è stato ciò che ha reso così speciale l’incontro: la sua felicità nell’ammettere che ci sono ancora tante cose che deve imparare a scoprire, “Io amo perché ho voluto conoscere”.
Ora fa lo scrittore: ha già pubblicato tre libri in italiano, l’ultimo è una raccolta di poesie, che dimostra la sua grande capacità di mettersi in gioco in nuove sfide. Nonostante la lingua, la metrica e l’alfabeto diverso, Fawad è riuscito a trasformare i suoi pensieri anche in poesia.
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