di Alessandro Nadalin
A circa sei mesi dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, causato dall’attacco del gruppo paramilitare del 7 ottobre, la situazione non sembra migliorare, anzi, il livello di escalation è aumentato con il passare dei mesi.
Il momento più alto di questo conflitto è rappresentato dall’invasione della Striscia di Gaza da parte delle IDF (Israel Defence Forces-Forze di difesa israeliane), attacco che ancora oggi non accenna ad arrestarsi. In questo periodo le IDF hanno tagliato la striscia in due parti, invitando la popolazione di Gaza City a spostarsi a sud verso il Valico di Rafah in vista di uno sfondamento in città, situata nel nord della striscia, da parte delle forze israeliane.
Ad oggi Gaza City si trova totalmente sotto il controllo israeliano, ma l’attacco alla città ha causato diverse vittime tra i civili palestinesi e distrutto diversi obiettivi sensibili, come gli ospedali. La stessa strategia è poi stata utilizzata per occupare la città di Khan Yunis, un altro grande insediamento situato nella zona sud della Striscia. Al momento le vittime tra i civili palestinesi sono circa 30 mila, ma è un numero che potrebbe aumentare.
Ora, come dichiarato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Israele si sta preparando ad attaccare la città di Rafah, insediamento che, secondo le forze israeliane, costituisce l’ultima roccaforte di Hamas.
Se si ripetesse uno scenario simile a quello di Gaza City e Khan Yunis, Israele si troverebbe nella situazione di attaccare una città che costituisce l’ultimo punto di ritrovo sicuro per i civili palestinesi, infatti Rafah è diventata la zona di raccolta degli abitanti della striscia che sono fuggiti dal nord e da Khan Yunis, di conseguenza la concentrazione di civili nel luogo è alta e un’azione offensiva delle IDF causerebbe molto probabilmente un elevato numero di vittime civili.
Proprio per questo rischio, il piano di attacco a Rafah è stato molto contestato dalle potenze estere, in particolare dagli Stati Uniti.
Il presidente Biden, che di recente ha cambiato atteggiamento nei confronti del governo di Tel Aviv, ha dichiarato di essere pronto a limitare gli aiuti diretti al governo israeliano qualora quest’ultimo prendesse di mira la città. Questo evento rappresenta il culmine dello scontro politico unicamente verbale tra Usa e Israele in merito alla gestione della crisi di Gaza, infatti la potenza occidentale ritiene sbagliato il metodo utilizzato da Tel Aviv per rispondere all’attacco del 7 ottobre e ha tentato di fermare l’offensiva più volte, ma Israele ha intimato ai suoi alleati di restare fuori dalla questione, in quanto si tratta di un affare del governo israeliano. A parte le parole, gli Usa non hanno attuato nessuna azione concreta per fermare Israele, continuando a fornire armi a Tel Aviv e ponendo il veto a tutte le risoluzioni ONU a favore della popolazione di Gaza precedenti a quella del 25 marzo del 2024 a cui si sono astenuti.
Oltre a dialogare con Israele, il presidente Biden ha tentato di mediare tra le parti per arrivare ad un accordo che prevedesse una tregua e il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre, ma fino ad ora questi tentativi si sono rivelati vani a causa dell’inasprimento del conflitto.
Oltre ad assumere un ruolo politico tra le parti, gli Stati Uniti nell’ultimo periodo hanno assunto una posizione di rilievo nella questione umanitaria, infatti l’esercito statunitense, vista la chiusura da parte dell’Egitto del valico di Rafah, ha paracadutato grandi quantità di aiuti umanitari nella striscia nel tentativo di scongiurare una crisi alimentare che, secondo i rapporti dell’ONU, sembrerebbe imminente; inoltre il presidente Biden ha ordinato la costruzione di un porto galleggiante che permetta l’approdo di navi cariche di aiuti umanitari, in maniera tale da evitare la crisi.
Lo Stato che sembra mantenere ancora una posizione idefinita è l’Egitto, infatti il governo del Cairo ha espresso il suo supporto alla causa palestinese, ma allo stesso tempo tiene chiuso il Valico di Rafah, impedendo ai rifugiati palestinesi di stanziarsi in Egitto.
Come mai l’Egitto ha preso questa decisione?
La paura principale di Al Sisi nell’accogliere i rifugiati palestinesi è l’espansione del conflitto anche in territorio egiziano. Il presidente teme che tra i rifugiati si infiltrino anche milizie estremiste anti-israeliane che bombardino Israele dall’interno dei territori egiziani, causando la risposta militare del governo di Tel Aviv.
La motivazione non è solo politica, ma anche storica: gli abitanti di Gaza rappresentano gli eredi dei profughi arabi del ‘48, ossia gli abitanti della zona che Israele aveva costretto ad abbandonare le loro terre trovando rifugio a Gaza dopo la prima guerra arabo-israeliana. Al Sisi teme che Israele non faccia più rientrare gli abitanti di Gaza nelle loro terre una volta entrati in Egitto, rendendo i civili palestinesi profughi per una seconda volta.
In sostanza, Al Sisi non ha nessuna intenzione di abbandonare la causa palestinese e ciò si nota nelle sue dichiarazioni pubbliche: “La liquidazione della causa palestinese senza una giusta soluzione è oltre il regno delle possibilità. In nessun caso ciò avverrà a spese dell’Egitto. Assolutamente no.”
L’unica potenza coinvolta che non ha cambiato le sue posizioni è l’Iran; il governo di Teheran non sembra intenzionato a collaborare per abbassare il livello di escalation, anzi, la sua volontà sembrerebbe esattamente l’opposto.
Dopo l’alleanza (di convenienza) stipulata con Hamas, l’Iran sembrerebbe aver trovato un altro alleato che possa portare avanti la lotta indiretta contro l’occidente, ossia gli Houthi.
Gli Houthi sono un gruppo miliziano dello Yemen, alleato con Hamas e l’Iran, che da diversi mesi colpisce le navi commerciali delle grandi potenze che passano attraverso il canale di Suez. I suoi membri hanno affermato che il loro unico obiettivo sono le navi cargo israeliane, ma nella realtà dei fatti gli attacchi si sono riversati contro qualsiasi nave legata ad USA e GB che passava il canale. Per permettere agli Houthi di continuare le loro operazioni, l’Iran li ha finanziati e armati, come ha fatto con Hamas ed Hezbollah (gruppo miliziano libanese), fornendo in particolare droni. Gli attacchi hanno fatto sì che le navi non intraprendessero la strada del canale di Suez, bensì decidessero di circumnavigare l’Africa, aumentando di conseguenza i tempi e i costi del viaggio. Per fermare gli attacchi degli Houthi, gli Usa e la GB hanno inviato le loro flotte in protezione delle grandi navi cargo. Questa operazione prende il nome di “Prosperity Guardian”. Le marine delle due potenze occidentali hanno eseguito diversi raid aerei e missilistici sulle basi degli Houthi, colpendo alcuni punti strategici fondamentali per il gruppo yemenita.
Oltre a USA e GB, anche l’UE si è attivata militarmente per proteggere i propri interessi economici nella zona dagli attacchi dei miliziani. Aspides (in greco scudo) è il nome scelto per denominare questa operazione a cui prendono parte direttamente sul campo Italia, Germania, Francia e Grecia. É proprio l’Italia a guidare la missione, infatti la nave italiana D 554 Caio Duilio rappresenta la nave comando delle operazioni condotte dai governi europei nella zona.
Nonostante il messaggio di minaccia lanciato dalle potenze occidentali tramite queste missioni di protezione, l’Iran non sembra essere intenzionato a calare il suo supporto agli Houthi o ad Hamas.
Anche Hezbollah continua a rappresentare una minaccia per il governo israeliano.
Storicamente le tensioni tra le due parti sono sempre state alte e nel 2006 erano sfociate in una breve operazione militare condotta da Israele contro il gruppo paramilitare nel sud del Libano.
Oggi la situazione non sembra molto diversa, infatti spesso i due schieramenti si bombardano a vicenda con attacchi missilistici e, nel caso degli israeliani, anche aerei. L’opinione pubblica teme che possa ripetersi uno scenario simile a quello di Gaza, ma, se ciò avvenisse, Israele si troverebbe ad affrontare un avversario insidioso: a differenza di Hamas, Hezbollah è più numerosa e può contare su armamenti avanzati, come i droni, forniti dall’Iran; inoltre Hezbollah è probabilmente il gruppo più preparato ad affrontare il combattimento urbano, perciò in caso di conflitto diretto Israele potrebbe fare molta più fatica.
Come detto poco fa, l’esercito israeliano si era già scontrato con il gruppo libanese, ma la strategia dell’IDF era quella di attuare bombardamenti aerei e piccoli raid terrestri senza occupare i territori libanesi. Cosa succederebbe se Israele questa volta decidesse di occupare militarmente i territori libanesi, come fatto a Gaza, costringendo le proprie forze a confrontarsi con Hezbollah in zone urbane?
Al momento, però, non disponiamo delle informazioni necessarie per rispondere a tale domanda.
Infine, il Sudafrica si è attivato politicamente contro Israele. Il governo sudafricano ha portato in causa Israele al Tribunale internazionale per crimini di guerra. Le accuse si basano sulla gestione della crisi da parte del governo di Tel Aviv. Tra le prime mosse attuate per rispondere all’attacco del 7 ottobre, Israele ha isolato la striscia dal resto del mondo, impedendo l’arrivo di risorse fondamentali, come approvvigionamenti alimentari e idrici, medicine e carburante. Questa mossa è considerata a livello internazionale un crimine di guerra e il governo di Città del Capo ha basato le accuse su questa manovra attuata da Tel Aviv, oltre ai bombardamenti aerei.
Il Sudafrica è parzialmente riuscito nel suo intento, in quanto la corte internazionale ha emanato un’ordinanza che invita Israele a fermare le sue operazioni a gaza, ma il governo di Tel Aviv si è subito espresso contro tale decisione.
Per arrivare a una condanna definitiva dello stato di Israele potrebbe volerci molto tempo.
Nella prossima edizione riporteremo eventuali aggiornamenti in merito alla questione, perciò continuate a seguire l’Intrepido.
Fonti:
–GioPizzi (canale youtube)-Strage di Gaza: Come reagiranno gli altri paesi del Medio Oriente?
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