di Desiree Saccavini

Io fallisco, tu fallisci, lei fallisce, lui fallisce, noi falliamo, voi fallite, essi falliscono:
TUTTI FALLISCONO, MA NESSUNO LO ACCETTA.

Nella società odierna il fallimento è temuto da tutti perché si è convinti che il successo sia garanzia di felicità e i vincitori siano gli unici ad emergere, ma chi l’ha detto questo? Chi ha deciso che per essere felice si debba continuamente avere successo senza permettersi mai un fallimento? Ma soprattutto chi ha detto che perdere abbia delle conseguenze esclusivamente negative? Eppure chi lo ha deciso per noi ci ha reso tutti quanti schiavi della vittoria, dell’apparire, del diventare piuttosto che dell’essere, perciò ormai questa corsa verso il futuro, che non riusciamo mai ad afferrare, ci ha costretto a lasciare alle spalle il presente, chi ci circonda e addirittura noi stessi.
Tutti noi abbiamo paura di fallire e tutti noi falliamo. C’è chi non sa che strada prendere perché in ognuna vede un possibile fallimento. C’è chi ha già scelto una strada nonostante sia quella sbagliata e non vuole cambiarla per paura di imbattersi in un altro fallimento. C’è chi la strada la sta per concludere e le vittorie ottenute le può contare sulle dita d’una mano ben allargata, infatti i fallimenti occupano tutto lo spazio che vi è fra di esse, ma questo non gli importa, e, mentre guarda la sua mano, sorride, perché ci vede chi è lui oggi.
Il fallimento non è accettato perché è considerato una perdita di tempo, soprattutto per noi giovani che abbiamo sempre fretta che le cose accadano e, soprattutto, vogliamo diventare subito grandi. Quindi essere bocciati, sbagliare facoltà all’università, non superare il test di ammissione, non convincere il datore di lavoro durante il colloquio sono fallimenti che ci allontanano dal principale obiettivo, quello di essere adulti e indipendenti. Certo, cestinare un anno o due di vita fa schifo, però, se ci ha aiutato a capire chi siamo veramente e cos’è giusto per noi, perché dovremmo starci poi così male?
Il fallimento ha noi stessi come protagonisti con tutti i nostri sentimenti, emozioni e debolezze e, in fin dei conti, non è altro che la manifestazione di un allontanamento tra ciò che credevamo di essere e ciò che siamo realmente. È un atto di grande consapevolezza, di conseguenza potremmo anche non definirlo “fallimento”, ma un necessario e fondamentale intervallo di crescita.
Il fallimento ci aiuta a comprendere che fino a quel momento siamo stati troppo influenzati da fattori esterni senza ascoltare davvero noi stessi, i nostri desideri e le nostre passioni. Ecco, proprio questo dovremmo imparare a fare: ascoltare noi stessi e non gli altri. Ci vuole un po’ di sano individualismo in questo mondo. Non dobbiamo considerare le aspettative che gli altri hanno su di noi: quello che vogliono gli altri non può contare più di quello che vogliamo noi. Dobbiamo preoccuparci di non deludere prima di tutto noi stessi, perché alla fine forse la vera paura non è quella di fallire, ma piuttosto di ricevere un giudizio negativo da chi ci circonda.
Al tempo stesso dobbiamo portare più rispetto verso noi stessi, comprendere quali sono i nostri ritmi e mettere da parte per un attimo gli obiettivi del futuro lontano e apprezzare fin da subito i piccoli successi quotidiani, dando loro l’importanza che meritano. Dobbiamo accettare che tutto ciò che succede ha un preciso significato e non possiamo lottare contro il tempo, controllare sempre tutto, essere sicuri di riuscire in quello che vorremmo nella vita. Dobbiamo essere consapevoli che tra le nostre priorità ci dev’essere anche quella di fermarci e permettere che il nostro pensiero dialoghi con il cuore. Alla fine che senso ha avere successo se poi non so nemmeno chi sono, per di più mi dimentico chi ero e chi volevo realmente diventare?
Fallire è umano e accettare il fallimento è una virtù che non significa accontentarsi, bensì saper elaborare e accogliere se stessi. Fallire ci porta a ricominciare con occhi diversi, più maturi e consapevoli.
A diciotto anni non si può realmente fallire, perché ciò significherebbe tradire se stessi e a diciotto anni, purtroppo o per fortuna, noi non sappiamo ancora chi siamo.
Infine, come ci ha voluto trasmettere Roberto Rossellini nel finale del film “Francesco, giullare di Dio” (1950), l’uomo durante la sua vita è in continuo movimento, ma inizialmente non fa altro che girare intorno a se stesso, fino a che non cade per lo stordimento e la confusione e, a quel punto, solamente la direzione su cui è caduto gli indicherà la strada che deve percorrere.