di Valentina Segatti

A volte è difficile essere sé e rimanere coerenti a se stessi. Perché c’è differenza, no?
Sembra un paradosso: partire da sé per rimanere in sé, realizzare se stessi senza allontanarsi troppo da chi siamo.
L’uomo d’altronde è un mistero pure a se stesso, dunque come può pretendere di comprendere l’altro se non riesce nemmeno a comprendere sé?
Conosciamo noi stessi nella misura in cui ci relazioniamo con gli altri, ma non comprendiamo davvero chi siamo se non quando siamo soli. Sembra un’enigma: metterci davanti agli altri per conoscere noi stessi, come se volessimo trovare nell’altro uno specchio davanti a cui osservarci e scoprirci. Ma l’altro non è uno specchio, ogni persona che ci sta davanti riesce a plasmare e deformare chi siamo in relazione a lui.
L’uomo è un attore che si esibisce nel teatro della vita e, a forza di indossare una varietà di maschere davanti agli spettatori, non percepisce più il peso di esse sul suo volto, dimenticandosi le proprie fattezze originali.
Come disse Pirandello, l’uomo è diverso con chiunque, ma si sente “uno per tutti”.
Il problema è il momento in cui prendiamo atto di ciò, perché coincide con il momento in cui capiamo che non vogliamo essere definiti solo da quella determinata azione compiuta nei confronti di quella determinata persona.
Siamo così tanto che è un’ingiustizia essere giudicati solo per quello. La tragedia umana sta proprio qui: cercare di riassumere e spiegare l’uomo con i miseri strumenti di cui egli dispone, che si dimostrano sempre insufficienti e inadeguati. Cercare di categorizzare l’uomo in buono e cattivo, etico o dissoluto, dimenticandoci tutte quelle sfumature che lo rendono così diversificato e unico.
Ogni tentativo che l’uomo fa per spiegare chi è risulta fallimentare. Egli non riesce a raccontarsi dandosi giustizia. D’altronde come si può raccontare la realtà nella sua unica verità se l’uomo è molteplicità?
È un vicolo cieco: l’uomo cerca di conoscersi totalmente, ma si scopre come nuovo ogni volta che affronta un evento imprevedibile. È una rincorsa infinita verso la piena consapevolezza e coscienza di sé, che dura fino a quando egli non decide di mettere radice in sé.
Maturare forse significa proprio questo: mettere radice in sé, che non vuol dire non mettersi mai in discussione, ma significa cambiare in funzione di sé.
L’uomo così, in un mondo di incertezze, trova una certezza in se stesso. Non si potrà mai concepire come unità invariabile ma, consapevole della propria molteplicità, potrà vedersi nell’avvenire, e si saprà riconoscere nella sua diversificata azione.
E ora che ha raggiunto il suo fatidico obiettivo di conoscere se stesso, potrà iniziare a riconoscersi in relazione agli altri e potrà spingersi a riconoscere l’altro nella sua molteplicità.