di Carla Delle Vedove

A fine febbraio ancora non ci rendevamo conto che in breve tempo la nostra vita sarebbe stata sconvolta e cambiata radicalmente. Non avremmo mai potuto pensare che nel 2020 un virus, microscopico e invisibile, avrebbe potuto portarci a vivere situazioni che sembravano essere così lontane da noi, così impossibili da rivivere dopo tanti anni passati dalle ultime epidemie e dopo l’innovazione tecnologica a cui l’uomo è giunto. Al contrario di quanto avviene nel romanzo “La peste” di Albert Camus, non c’è stato nessun topo a segnalarci che qualcosa non andava: il Coronavirus si è presentato inaspettatamente e ci ha sconvolti.

In questo periodo ci sembra proprio di essere all’interno di questo romanzo che descrive un’epidemia di peste avvenuta negli anni ‘40 ad Orano, una città dell’ Algeria. Subito dopo lo scoppio dell’epidemia, segnalata dalla presenza di topi morti, la città di Orano è stata bloccata, impedendo a chiunque di uscirvi o di entrarvi e gettando tutti nello sconforto, soprattutto a causa della separazione dalle persone amate. Nonostante ciò, all’interno della città sono stati tenuti aperti i luoghi pubblici come teatri, bar e ristoranti e le restrizioni imposte alla popolazione di Orano non sono state troppo pesanti. Oggi, invece, la “peste moderna” che stiamo vivendo non è circoscritta in un luogo preciso che è sufficiente isolare per bloccare i contagi: è diffusa in tutto il mondo, nessun luogo escluso. Forse proprio per questo motivo le misure di sicurezza che sono state adottate per diversi giorni sono molto più severe, tanto da impedire a ognuno di noi di muoversi dalla propria abitazione se non per valide motivazioni.

Se questa è la principale differenza tra il romanzo e la realtà attuale, diverse altre sono le analogie, tanto da far sembrare che il romanzo sia ambientato proprio ai giorni nostri.

In entrambi i casi, infatti, all’inizio non si è compreso quanto in verità la situazione fosse minacciosa, ritenendo che venissero colpite soprattutto le persone più deboli, più anziane e con patologie, quindi non la maggior parte della popolazione. Inizialmente i casi accertati non sono stati sufficienti per dichiarare l’epidemia: per questo molti hanno continuato a condurre normalmente la propria vita, hanno ritenuto che le misure di sicurezza applicate fossero troppo severe e che si potesse tornare alla realtà di prima entro un breve periodo. I casi però si sono moltiplicati velocemente prendendo tutti alla sprovvista, come in una guerra, in cui però l’avversario non è un altro uomo, ma è un essere invisibile ed estremamente pericoloso.

In pochi giorni quindi i contagiati e le persone in quarantena sono aumentate esponenzialmente e gli ospedali si sono riempiti di pazienti. A volte le strutture ospedaliere sono risultate insufficienti, come anche i dispositivi sanitari, che spesso sono arrivati da altri luoghi, i medici e gli infermieri, costretti a lavorare in condizioni assurde fino allo stremo, pur di salvare più persone possibile. Medici e infermieri ricordano in particolare il personaggio di Rieux: medico instancabile che, consapevole di poter morire, non si tira indietro e impiega tutte le sue forze per aiutare gli altri senza chiedersi se sia opportuno farlo. Ciò che è fondamentale per lui è agire e compiere il proprio dovere non solo di medico, ma soprattutto di uomo. La solidarietà verso gli altri è per lui più importante della sua stessa vita. Anche altri personaggi ritengono lo stesso: infatti Tarrou, che durante tutta l’epidemia redige una cronaca, cerca di aiutare il medico e Rambert, giornalista, sceglie di rimanere in città. Sebbene voglia fuggire per essere felice, si rende conto che abbandonando chi ha bisogno di aiuto non potrebbe mai esserlo. Impara quindi a mettere da parte il proprio individualismo e a impegnarsi in nome del valore della vita umana. È estremamente importante che ognuno si presti a fare la propria parte e a lottare con tutte le forze anche contro la morte. Rieux, infatti, secondo una morale laica, sa che il destino della sua città dipende soltanto dagli uomini: è meglio agire piuttosto che credere che ci sia un Dio che possa porre fine alla peste. Sebbene all’inizio il padre Paneloux sostenga che la malattia sia mandata da Dio come flagello divino per far riflettere gli uomini sui valori e farli riavvicinare alla religione, alla fine è portato a ricredersi. L’azione sembra essere l’unica soluzione, anche perché Dio, in quel momento, non guarisce nemmeno i bambini, come nel caso del figlio del giudice Othon che muore soffrendo.

Il romanzo presenta ulteriori assonanze con il mondo di oggi. A Orano, infatti, sono stati emanati nuovi decreti per limitare la libertà di spostamento dei cittadini e attuare le restrizioni alle attività economiche considerate non necessarie, provocando in questo modo pesanti conseguenze sulle persone che vi si occupano e sull’economia intera; allo stesso tempo chi invece ha potuto continuare a vendere i propri prodotti ha aumentato i prezzi, aggravando ancora di più la crisi. Sono anche diminuite le cause di diritto comune e i reati, mentre aumentano notevolmente le infrazioni alle nuove disposizioni per il contenimento dell’epidemia. Molte persone, infatti, continuano a non rendersi conto della gravità di uscire di casa, di spostarsi in altre zone e venire in contatto con altre persone e per questo si muovono comunque, contribuendo alla diffusione del contagio. Alcuni, come Rambert nel romanzo, vogliono fuggire dal luogo in cui si trovano per ritrovare le persone amate, ma fortunatamente altre, come il dottor Rieux, si rendono conto che è più opportuno rimanere nel luogo in cui ci si trova.

Probabilmente ciò che fa soffrire maggiormente in questo tipo di situazioni è proprio la separazione dai propri affetti. Si è costretti a passare settimane o addirittura mesi lontano dalle persone a cui si vuole bene e lo si deve fare proprio per proteggerle e per non metterle in pericolo. Ciò che è più doloroso però è che molte persone sono costrette a vivere la sofferenza della propria malattia senza venire in contatto con nessuno e senza quindi poter avere un aiuto per superarla emotivamente. Spesso molte persone muoiono in solitudine senza vedere i propri cari nemmeno un’ultima volta. Le morti avvenute in questo modo sono moltissime, tanto che le bare scarseggiano. I familiari devono quindi vivere il proprio dolore separati l’uno dall’altro e non possono avere nessuno vicino per condividere i propri sentimenti. In questo modo la sofferenza si manifesta maggiormente e fa sentire anche i rimpianti per ciò che non si è fatto prima dell’inizio dell’isolamento. È emblematico il caso del dottor Rieux: poco prima della chiusura della città aveva salutato la moglie che partiva per andare a curarsi altrove per una malattia e le disse che quando sarebbe tornata lui non l’avrebbe più trascurata e si sarebbe occupato di lei. Alla fine però la donna, gravemente malata, muore senza poter rivedere il marito.

Al contrario del romanzo oggi noi abbiamo la possibilità e la fortuna di poterci tenere in contatto con le persone grazie alla tecnologia: forse senza di essa tutto sarebbe più difficile da sopportare e almeno in questo modo possiamo sentirci meno soli nell’affrontare questa situazione.

Noi oggi, come i personaggi del romanzo, abbiamo la consapevolezza che la nostra vita futura, una volta conclusa l’epidemia, non sarà più la stessa. Dovremo rinunciare a tutte le comodità della vita passata e dovremo stare attenti ai nostri comportamenti per evitare che possa ritornare un’epidemia. Abbiamo però la possibilità di riflettere, di imparare e di fare in modo che la conoscenza e la memoria di ciò che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo ci permetta di essere migliori. Alla fine, come conclude Albert Camus nel romanzo, non si tratta di peste o di coronavirus, ma “è la vita, punto e basta”.