di Desiree Saccavini e Sara Dominissini
Ingiustizia, migranti, musica, rifugiati, solidarietà: sono le parole chiave di Time for Africa, che ha presentato un progetto culturale, “Remare inContro”, di cui vi racconteremo qualche frammento. Ma prima di tutto cos’è TimeforAfrica? È una Onlus, associazione non-profit, fondata nel 2005 da Umberto Marin, impegnata in attività di cooperazione internazionale e sostegno a distanza in terre africane. Grazie a questa associazione gli africani possono usufruire di un supporto concreto, soprattutto finanziario, ma rimangono loro protagonisti dello sviluppo, anche perché è stato dimostrato dalla storia che la presenza italiana in Africa può fare più danni che benefici. Si tratta di promuovere welfare di comunità: un modello di sviluppo locale sostenibile, in cui le persone condividono le proprie idee, implementando politiche sociali innovative.
Dal 17 febbraio al 15 marzo questa organizzazione ha proposto agli udinesi (ma non solo) cinque occasioni di confronto nei luoghi simbolo d’incontro: cinema, bar, locali, osterie. Qui ogni giorno si ritrovano, conversano e discutono tra di loro migliaia di persone diverse, ma che nella loro diversità accolgono e contribuiscono a rafforzare la coesione sociale del paese, del quartiere, della città.
Col fine comune di promuovere l’incontro con il diverso (insieme per InContrare l’altro) i cinque momenti di confronto si sono sviluppati intorno alla musica, alla recitazione e al racconto: non ci sono mezzi migliori per coinvolgere il pubblico nell’ascolto dell’altro e con l’altro, per costruire e rafforzare la solidarietà e la convivenza pacifica tra le persone.
Ciascuna serata era dedicata ad uno o più ospiti che ci hanno donato le loro storie e i loro racconti, carichi di emozioni e significato. Il dialogo era contornato da un’atmosfera amichevole e calma creata non solo dall’attenzione del pubblico, ma anche grazie a dei momenti musicali, in cui Nicoletta Taricani, ex copernicana, musicista appena laureata al conservatorio, cantava pezzi del suo album “In un mare di voci”.
Durante gli incontri si ricorreva spesso a riflettere su che cosa sia un confine fisico e, soprattutto, la differenza di quest’ultimo dai confini mentali che noi erigiamo. Speriamo che nelle interviste che vi riporteremo lo possiate capire.
Le prime protagoniste che vi proponiamo sono donne fuggite dall’Iran, di generazioni diverse, con storie diverse, ma che condividono la stessa speranza: vedere il loro Paese ritornare libero.
Vi riportiamo, quindi, i loro racconti che sono stati protagonisti della serata dell’8 marzo 2023 al cinema Visionario.
Elahe è una donna sulla sessantina che ha vissuto una serena gioventù in Iran e che ci testimonia il declino della libertà nel suo paese.
Quando hai iniziato a temere per la tua libertà? Quando hai avvertito il pericolo?
La rivoluzione islamica scoppiata nel 1979 ha cambiato per sempre usi e costumi del mio Paese, che ha fatto un passo indietro, all’epoca della mia giovinezza, quando l’Iran era ancora un paese laico e filo-occidentale, dove le donne avevano appena conquistato la libertà, anche nel vestire.
Durante la mia vita ho visto l’Iran trasformarsi, le donne dal vestire le minigonne hanno iniziato ad indossare il niqab. Questo lo dimostrano le copertine delle riviste di moda, in deciso contrasto con i dettami del Corano imposti oggi.
Mi sono resa conto del pericolo in cui stavo incorrendo quando, andando a fare la spesa, una donna mi riprese per come indossavo il mio velo e notai nel parcheggio, dentro ad un van, un uomo munito di fucile che ci osservava.
A quel punto ho capito veramente che non potevo più vivere in quel modo, con quelle dinamiche e quella paura, quindi ho deciso di andarmene e sono giunta in Italia ormai quarant’anni fa.
Zara, la nostra seconda protagonista, è una giovane che ha conosciuto soltanto l’Iran sotto il regime oppressivo. Era assistente alla poltrona di un chirurgo e per hobby le piace cimentarsi nella pittura. Ha dato alla luce una splendida bambina nata proprio l’8 marzo, giornata internazionale dei diritti della donna.
Ci ha raccontato la condizione per cui laggiù era prigioniera e che tutt’ora imprigiona le donne del suo paese.
Cosa non può fare una donna?
L’elenco è interminabile: una donna non può cantare, non può andare in bicicletta, non può recarsi in piscina per nuotare o andare allo stadio. Gli sport che può praticare sono limitati e, in particolar modo, il calcio le è vietato, le sono proibiti istruzione e svago, il piacere del tempo libero.
Chi affianca le donne in questa lotta?
In questa lotta le donne non combattono da sole, lo si può vedere da chi sono occupate le carceri: le prigioni iraniane sono piene di giornalisti, avvocati, medici. Anche gli uomini sono solidali con noi, ma è importante sottolineare che noi non abbiamo bisogno della loro protezione; loro sostengono la nostra lotta, aiutano ad amplificare la nostra voce.
Gli Scritti della fede baháʼí insegnano che esiste una sola umanità e che tutte le persone sono uguali agli occhi di Dio, sostiene la parità di genere, nella forma in cui non c’è differenza tra la condizione spirituale degli uomini e delle donne. Viene professato che uomini e donne possiedono lo stesso potenziale di virtù e che sono come ali di un uccello, in cui ciascuna ala è necessaria per poter volare.
Questo principio incoraggia la società tutta a elevare la voce delle donne in protesta.
A questo punto abbiamo interrogato Mariam, una giornalista afghana che studia all’università a Roma.
Le abbiamo sottoposto una domanda circa la cultura sul velo, in quanto noi occidentali la ignoriamo totalmente, associamo questo elemento all’oppressione e all’imposizione maschile, non a un gesto di autodeterminazione e fede della donna.
Nella nostra società, in cui confusione e ignoranza su alcune tematiche restano all’ordine del giorno nonostante gli ampi mezzi di informazione, è usuale generare e tramandare stereotipi e pregiudizi.
Qual è il vostro reale rapporto delle donne iraniane con il velo?
Quando indossi il hijab sei perennemente giudicata: da una parte c’è chi sostiene che tu sia necessariamente oppressa, che la scelta non sia tua, e dall’altra la tua comunità spesso ti rinnega e ti giudica per il modo in cui decidi di indossarlo.
Ma una donna è veramente libera quando ha la possibilità di scegliere, quando le sue scelte identitarie non vengono criticate e messe in discussione, dandole in pasto a dibattiti superficiali e generalizzatori.
Il 10 marzo 1979, le donne iraniane manifestarono per la prima volta lungo le strade di Teheran contro i nuovi governanti della “Repubblica islamica” al grido di: “La libertà non è né occidentale né orientale, è universale!” chiedendo il ritiro della norma sul velo obbligatorio. Tra loro c’erano anche donne velate. Una di loro spiegò alla nostra telecamera: “Sono una musulmana devota, ma preferisco togliermi il velo piuttosto che vivere in uno Stato dove il velo è obbligatorio!”.
Siamo tornate a casa quel giorno, 8 marzo, e guardando le mimose che decoravano le nostre tavole ci siamo rese conto di quanta ipocrisia ci sia nello scambio di questi graziosi fiori gialli, mentre, non così lontano da noi, ragazze della nostra età non parteciperanno a questo anno accademico, perché una nuova legge così ha sancito.
Mentre noi ci scambiamo mimose e auguri, a quattromila chilometri da noi donne e uomini come noi stanno lottando per sovvertire un sistema.
Dall’Iran ci spostiamo e conosciamo i protagonisti del secondo incontro a cui abbiamo partecipato. Vi racconteremo due nuove storie: una iniziata dal Pakistan e l’altra dalla Costa D’Avorio.
Incontro del 15 marzo al bar Tommy, in borgo stazione.
La prima testimonianza è quella di Salif.
Salif, raccontaci la tua storia.
Sono partito dal mio paese quando avevo solo 15 anni. Ho dovuto abbandonare la Costa d’Avorio passando per la città di Mali e risalire l’Africa per raggiungere l’Italia: mi sono lasciato alle spalle il Burkina Faso, il Nigeria e l’Algeria fino ad arrivare in Libia; da qui poi ho potuto attraversare il mare e toccare finalmente le terre siciliane. In Sicilia mi ha accolto una comunità e sono rimasto per due settimane, poi però mi sono spostato a Firenze, dove ho frequentato la scuola, conosciuto molte persone anche della mia età e ho potuto far accrescere la mia passione per il calcio. È stata proprio questa mia passione a portarmi fino a qua, in Europa. Ho fatto un provino per una squadra: è andato molto bene ma, non avendo i documenti, non mi era possibile fare il tesseramento. Peccato, volevo diventare un grande calciatore, era questo il mio sogno.
Dopo Firenze sono arrivato qui in Friuli, più precisamente a Prato di Pordenone, un piccolo paesino che mi ha formato e mi ha consentito di essere pronto per lavorare.
Ho studiato per tre anni in una scuola alberghiera e, infine, mi sono ritrovato a Udine. Così sono riuscito ad andare a lavorare per davvero ed era questo il mio obiettivo principale, perché quando te ne vai di casa tutti contano su di te e non puoi perdere tempo, devi lavorare anche per loro, sulle tue spalle porti la speranza di un’intera famiglia. La mia prima esperienza lavorativa l’ho svolta a Lignano; non è stata una bella esperienza, anzi, sinceramente è stato un disastro.
Il trattamento che mi riservavano era pessimo, si rivolgevano a me in modo veramente scurrile, disinteressato, ma dopotutto li ringrazio, questa esperienza mi ha insegnato molto.
L’intero viaggio è un’esperienza molto intensa, sia dal punto di vista fisico che emotivo. S’incontrano tante persone che poi nei casi migliori rimangono veri e propri amici. Il rapporto che si crea è talmente intenso che ad un certo punto smetti di avere paura, così emerge dentro di te la preoccupazione per l’altro. La solidarietà e l’affetto occupano il primo posto, le frontiere non sono solo luoghi di violenza e avarizia.
Adesso percorriamo migliaia di chilometri e raggiungiamo il luogo dove ebbe inizio la storia di Wajid, che è venuto in Italia principalmente per curarsi.
Wajid, raccontaci il tuo viaggio.
Io sono partito dal Pakistan, per poi raggiungere l’Ungheria, ho visitato Budapest, e nel giro di un mese sono arrivato a Bologna passando per l’Austria. In Italia certamente ho sentito la mancanza della mia famiglia, ma poi ho compreso che me ne potevo costruire una diversa anche all’estero, infatti ho conosciuto molte persone che mi sono state di grande aiuto: la mia maestra d’italiano e altri due, tre amici.
Mi è stato anche proposto di andare in Spagna, ma poi ho deciso di rimanere in Italia. Ho potuto visitare Napoli, Pompei, la Costiera Amalfitana, ma il posto che mi rimane più nel cuore è senza ombra di dubbio Venezia: le gondole e gli scorci mi hanno emozionato e il suo profumo io lo associo al profumo della vita.
Il viaggio può essere faticoso e spaventoso, ricominciare da zero è destabilizzante, ma è giusto darsi l’opportunità di costruirsi una vita nuova, viaggiare e scoprire nuovi mondi, aprendosi a persone diverse da te che possono arricchirsi e donarti gesti di amore.
Chi non rischia nulla non guadagna nulla.
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