di Lorenzo Altomare

“L’umanità esiste per creare opere d’arte. Almeno ciò non è egoista come le altre azioni umane. Grandi illusioni! Immagini di assoluta verità”

Il cinema per Godard è un’arte mai nata, schiacciata tra un uso commerciale e un uso politico, culminato nella “estetizzazione della politica” attuata dai totalitarismi novecenteschi. Non c’è mai stato nulla come “il” cinema, ma solo una continua lotta per la sua possibilità: Tarkovskij rientra tra coloro che hanno avuto un ruolo da protagonista all’interno di questa lotta per l’affermazione del cinema come arte prima che come mezzo di intrattenimento o propaganda. Ogni opera o creazione umana è espressione della propria verità interiore (Kandinskij in “Lo spirituale dell’arte” aveva chiamato lo stesso concetto “principio di necessità interiore”), ovvero la propria lingua, il sistema espressivo proprio di ogni individuo chiamato a dar forma alle proprie idee. L’arte per Tarkovskij è un metalinguaggio attraverso il quale gli uomini tentano di entrare in contatto con l’altro, di comunicare e fare propria l’esperienza altrui, un particolare modo di entrare in rapporto con la realtà e di trovare un senso all’esistenza. Ogni arte è frutto di un processo che è al contempo di astrazione e di creazione: astrazione come ricerca di un significato ultimo al flusso dinamico e caotico della realtà, creazione come costruzione di una “vita reale che prima di lui [dell’artista ndA] neppure esisteva in tutta la sua pienezza” (Dostoevskij). L’elemento costitutivo dell’arte è l’immagine artistica, unità organica di idea e forma, delle impressioni soggettive dell’autore e delle rappresentazioni oggettive della realtà. L’immagine artistica è l’unica capace di esprimere la totalità non percepibile del mondo di cui, per potersi dire veridica, deve mantenere la struttura contraddittoria e dialettica. L’arte è il mezzo con cui l’uomo cerca di appropriarsi del mondo e di una verità assoluta, ma non procedendo, come la scienza, per osservazioni, ipotesi e confutazioni oggettive e verificabili, bensì attraverso la creazione di un mondo che è al contempo espressione di una soggettività e rappresentazione di qualcosa che ha una sua autonomia rispetto al reale. L’arte è ogni volta “un’immagine nuova e irripetibile del mondo”, “un geroglifico della verità del mondo”.

Come sostenuto da Deleuze, se la letteratura è stata l’arte dell’Ottocento, capace di esprimere al meglio i sentimenti e i pensieri degli uomini di quel secolo, allora il cinema è stato l’arte del Novecento. Il cinema per Tarkovskij non è dato dalla somma semantica delle inquadrature, di segni che rimandano necessariamente ad un elemento altro, ma è un’arte che opera direttamente con la realtà, capace di comunicare con un piano d’immanenza assoluta e di comprendere le differenze che sussistono tra tutti gli enti nella loro uguaglianza: “ogni fotogramma fissa l’azione, il paesaggio, i volti dei personaggi: nel cinema avviene una singolare imposizione di norme estetiche, una definizione univoca della realtà estetica”. A ragione di ciò, il cinema ha una sua parziale autonomia come tecnica rispetto alle altre arti e in particolare rispetto alla letteratura (con la quale però condivide l’elemento essenziale, la temporalità): se questa è capace di dare una descrizione del mondo per mezzo del linguaggio, il cinema ce lo mostra senza intermediari, senza quel sistema di segni che costituiscono una lingua parlata e scritta. La materia di cui è fatto il cinema è invece il tempo, la condizione stessa dell’esistenza del nostro io: la coscienza è sempre un esserci, un essere-nel-mondo in un dato istante. Il tempo è un flusso continuo, una serie infinita di stati e di successioni in cui si struttura e si sviluppa il soggetto. La forma dell’esistenza del tempo, il modo di incarnarsi di questo concetto nella nostra pratica quotidiana, si manifesta nel rapporto di causa ed effetto. Il cinema è quell’arte che si appropria di questo elemento (il tempo della coscienza) e costituisce un nuovo principio estetico. Per Pasolini l’esistenza umana altro non è che un lungo piano sequenza, un cinema naturale e vivente in cui la morte esegue un’operazione di montaggio, fornendo all’opera una sua struttura ordinata e un suo senso unitario: “il cinema è la semiologia del linguaggio dell’azione”, un’idea che Tarkovskij condividerà sempre con il poeta di Casarsa. Il cinema si può dunque definire come quella tecnica capace di riprodurre sullo schermo lo scorrere del tempo nella forma fattuale, ovvero del fatto. “Il principio fondativo del cinema, che lo permea fin nelle sue microscopiche cellule, è il fatto”, il tempo registrato nelle sue forme e manifestazioni fattuali, capace di ricostruire nella loro interezza i collegamenti logici vitali. Come il suono è il medium (ovvero il mezzo espressivo con il quale l’artista trasmette il suo messaggio) della musica e il colore è il medium della pittura, il tempo lo è per il cinema: possiamo immaginare un film senza attori o scenografie ma non privo dello scorrere del tempo.  Il tempo del cinema è lo stesso della coscienza e, dunque, della vita di ogni soggetto: un flusso continuo costituito di istanti che non possono essere nettamente distinti l’uno dall’altro. In “Alla ricerca del tempo perduto”, Proust paragona il flusso della coscienza a una melodia che si snoda nel tempo e i cui istanti (le note musicali) non possono mai essere colte separatamente senza perdere il senso del tutto. Anche nel film nessuna delle sue singole parti può avere un significato autonomo, ma è il film nel suo complesso che costituisce un’opera d’arte, un tutto organico che non può essere spiegato unicamente a partire dai suoi elementi ma che, rispetto ai singoli fotogrammi, rappresenta un qualcosa di più che si rende evidente soltanto durante la visione. Il regista di un film è colui che è capace di “scolpire il tempo” dandogli la forma di fatto, è il filtro ultimo del processo di creazione cinematografica, colui che è in grado di connettere i vari elementi del film (sceneggiatura, scenografia, attori, …) e dar vita ad una struttura ordinata, un personale fluire del tempo.

Kandinsky nel libro “Punto, linea e superficie” definisce il punto come l’elemento fondamentale su cui si va a strutturare tutto il dipinto, il centro germinativo su cui si instaurano tutte le altre forme come la linea, traccia del punto in movimento e salto dallo statico al dinamico. Allo stesso modo, l’immagine artistica è la base su cui si sviluppa il film, l’unità organica e indivisibile data dalla successione consequenziale di fotogrammi. Se l’immagine cinematografica è analoga al ruolo che il punto ha nella pittura allora il film (colto nella sua essenzialità, ovvero come tempo fattuale) non può che corrispondere alla linea sulla tela. Il salto dal punto-immagine alla linea-film rappresenta una rottura, un salto irreversibile che segna un passaggio da una dimensione a un’altra qualitativamente differente. Il punto-immagine è l’unione suprema e unica tra silenzio e parola, è sempre un’allegoria che rende palpabile questa unità dove tutto è continuo e ogni cosa trapassa nell’altra e ogni fotogramma conduce per necessità al successivo, senza il quale rimarrebbe a uno stato insufficiente ed esigenziale. Il punto-immagine scaturisce durante le riprese ed esiste all’interno delle inquadrature, ma è con il montaggio che queste vengono composte creando “l’organismo vivente e unitario del film nei cui vasi sanguigni pulsa un tempo di varia pressione ritmica, dandogli vita”. Il montaggio non rappresenta per Tarkovskij il principale elemento costitutivo del film, ruolo che spetta invece al ritmo: questo non è dato dall’alternanza metrica dei vari brani ma dalla differente pressione temporale (definita come “la consistenza del tempo che scorre […], la sua concentrazione o la sua rarefazione”) all’interno delle inquadrature. Il montaggio per essere corretto non può corrispondere a uno smantellamento della linea-film e un ritorno ai suoi elementi fondamentali, i punti-immagine, ricomposti poi secondo un nuovo ordine temporale, deve invece rappresentare un metodo di collegamento tra piani differenti che tenga conto della pressione del tempo all’interno di essi e che sia contenuto a priori nel materiale ripreso sulla pellicola. Un ruolo di primissimo piano è poi lasciato da Tarkovskij allo spettatore del film. Quando andiamo al cinema siamo alla ricerca di un’esperienza vitale, alla ricerca di quel tempo che è andato perduto o che invece non è ancora stato trovato. Ma vedere un film è molto di più: lo spettatore, in un cinema autentico che punti ad essere arte prima che intrattenimento, cessa di essere tale (e di avere un ruolo puramente passivo) e diventa testimone, compartecipe del processo di scoperta della vita, quel processo con il quale il regista costringe lo spettatore a ricostruire l’intero attraverso le parti fino ad arrivare col pensiero al di là di quanto viene detto esplicitamente nel film. Spettatore-testimone e regista per Tarkovskij siedono sullo stesso piano nel processo di creazione del film, senza che nessuno dei due prevarichi sull’altro: è l’affermazione dell’univocità del reale e la negazione di qualsiasi gerarchia assiologica, di una maggiore o minore partecipazione all’Essere.

Spiegato cos’è il cinema, sorge poi spontanea una seconda domanda alla quale è necessario rispondere: perché si fa il cinema? Tarkovskij risponde nei suoi stessi film: la soluzione risiede in un unico ( e semplicissimo) elemento, l’amore umano, “il miracolo che si può contrapporre a qualunque arida teorizzazione che non preveda speranza per il mondo”. Questo sentimento è il nostro valore comune e indubbiamente positivo, sebbene abbiamo disimparato anche ad amare…”. Solo l’amore può costituire l’impostazione centrale della vita, dando un senso all’esistenza umana, pertanto il dovere del regista deve essere quello di far sì che l’uomo possa avvertire in sé l’esigenza di amare, l’unica forza realmente affermativa e costruttiva: come scrive Spinoza nella terza parte dell’Etica, quella dedicata allo studio dell’origine e della natura degli affetti, “odium reciproco odio augetur, et Amore contra deleri potest”.