di Linda Stroppolo

Qui in redazione, o meglio, nella sua versione online, abbiamo avuto la fortuna di ascoltare l’intervento di Irene Comisso, infermiera del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine e mamma della nostra redattrice Margherita.

Innamoratasi della Terapia Intensiva durante il suo tirocinio, la dott.ssa in Scienze infermieristiche Irene Comisso svolge il suo mestiere da quasi vent’anni; è un lavoro complesso, stressante ma sotto molti punti di vista entusiasmante, un cordone, come lo definisce lei, che non è mai riuscita a tagliare.

Quello che più l’ha affascinata, ci rivela, è senza dubbio il rapporto che si viene a costruire con il paziente dal momento che in questo tipo di reparto al personale infermieristico vengono affidate due, al massimo tre, persone di cui prendersi cura. La gestione dei malati si può definire totale, infatti gli infermieri si occupano di buona parte della terapia (dal assessment “testa piedi” alla messa in pratica del piano di guarigione), dell’assistenza di base e di alcuni aspetti inerenti la riabilitazione.

Negli ultimi due mesi il clima in ospedale non è lo stesso di sempre: l’epidemia di Coronavirus che ha attaccato l’Italia si è rivelata una sfida molto difficile da superare. Nonostante qui in Friuli il contagio e la letalità del virus siano stati più clementi, l’agitazione dovuta all’incombere di un nemico fino ad ora sconosciuto, l’urgenza e i morti hanno reso ben evidente la sua pericolosità.

La dottoressa ci racconta che le prime settimane sono state le più dure: “all’inizio dell’epidemia i pazienti infetti erano raccolti all’interno di una terapia intensiva, quando il loro numero ha cominciato ad aumentare siamo stati costretti ad allestirne una nuova dentro ad una sala operatoria, con tutte le criticità che questo può comportare”.

Non erano soltanto i numeri a spaventare nei primi tempi, ad incrementare la preoccupazione diffusa in ospedale contribuiva anche il senso di spaesamento per il dover mettere in pratica terapie nuove e protocolli fino ad ora mai richiesti e somministrare farmaci il cui utilizzo non era ancora mai stato necessario.

Muoversi per i corridoi del reparto con la sicurezza di un tempo -perché anche se sono passati soltanto due mesi quella di prima sembra davvero un’altra vita- risulta assai arduo, è infatti cambiato il modo di collaborare con i colleghi, a volte la barriera eretta dai dispositivi di protezione rende difficile la comunicazione, ma molto più spesso ci si evita a vicenda perché la paura di contagiare o essere contagiati prevale sul bisogno del supporto degli amici.

Ma “muoversi” in ospedale è diventato letteralmente più difficile perché a ostacolare le operazioni del personale sanitario ci sono tutti i vari dispositivi di protezione il cui utilizzo è indispensabile per tentare di controllare la diffusione del virus. All’impiego di guanti, mascherine e camici, che infastidiscono e ingoffano qualunque spostamento, bisogna rassegnarsi e accettare che tali strumenti diventino una sorta di seconda pelle.

Ora che la gravità sembra essere scemata e l’epidemia sotto controllo, non si deve assolutamente rinunciare alle misure di contenimento imposte, l’uso dei dispositivi di protezione non si può attenuare perché questa fase dell’epidemia è fragile tanto quanto la prima. Anche se i trend dei contagi paiono quasi rassicuranti “bisogna comunque essere preparati con posti letto e attrezzature in abbondanza nel caso in cui si ripresenti un’ondata di nuove infezioni nella nostra o in altre regioni ”, così afferma Comisso.

Una fase in cui “cautela” è la parola d’ordine e in cui le precauzioni non sono mai troppe, una fase in cui le premesse ci fanno ben sperare così come la fiducia nelle nuove terapie, prima fra tutte, qui in Friuli, l’ozonoterapia, la quale, nonostante sia ancora troppo presto per esprimerne un giudizio, sembra promettente. Nel frattempo, riafferma l’infermiera Comisso, l’importante è perseverare nell’obbedienza alle regole imposte per la nostra tutela e, per medici e infermieri, continuare a fungere da famiglia per quelle persone che, in Terapia Intensiva, aspettano di risvegliarsi e riabbracciare i propri cari.