di Alessia Turchetti
La morte non è mai giusta, se non altro per chi la vive.
Anche se l’ingiustizia interessa ogni morte, non è pensabile che un centenario morto nel sonno possa considerarsi vittima della stessa ingiustizia che colpisce un ragazzo di diciott’anni schiacciato da una putrella di centocinquanta chili durante la formazione professionale.
Lorenzo Parelli frequenta l’istituto salesiano G. Bearzi di Udine. Comincia l’alternanza scuola-lavoro. Viene orientato in un’azienda metalmeccanica a Pavia di Udine, dove, durante l’ultimo giorno di stage, muore, schiacciato, a diciott’anni.
Non allontaniamo il pensiero, immaginiamo nel dettaglio.
Entusiasta di vedere macchinari che non siano quelli dell’officina della sua scuola, incoraggiato da un padre che opera nello stesso settore, Lorenzo vuole costruire la propria esperienza. Come lui molti altri. Molti di questi stagisti scoprono presto che l’ipocrisia è un parassita che attacca anche il mondo lavorativo, che spesso nasconde realtà preoccupanti e ampiamente distanti dalla narrazione iniziale. Maschere che spesso svelano, troppo tardi, un volto corroso da un sistema capitalista, che tende ad anteporre gli interessi dell’azienda a quelli della salute dei lavoratori. Mani che reggono burattini, mani di chi ha dimenticato com’è stare dalla parte di chi gli ordini è tenuto a seguirli, mani di chi ha sempre potuto osservare dall’alto, o semplici mani di chi ha perso la propria ragione, imprigionato lui stesso tra le sbarre di un sistema disumanizzante.
Ultima ora dell’ultimo giorno delle giornate di stage previste. Una fatalità che sembra prendersi gioco della vita di un ragazzo.
Un tutor assente e sostituito da un collega operaio. Ma non dev’essere questo a sconcertare, perché sicuramente il primo non avrebbe certo avuto più tempo da dedicare rispetto al sostituto, in quanto operaio lui stesso. Piuttosto il fatto che la figura del tutor occupi in contemporanea il ruolo di operaio: è questo che deve far riflettere.
Perchè Lorenzo si trovasse lì o perché la putrella non fosse ben saldata se lo sono chiesto anche in procura. Indubbiamente nessuno lo stava sorvegliando in modo da evitare la tragedia.
Ma di chi è davvero la colpa? Anche questo se lo sono già chiesto.
Non si può pensare che un operaio, tenuto a svolgere la propria professione, possa vigilare allo stesso tempo su un ragazzo, che necessita(!) di essere seguito. Eppure lo avete ritenuto giusto, e il sistema di formazione che prevede l’alternanza scuola-lavoro lo ha messo in pratica. Allora, però, non stupitevi se questi sono i risultati. Non fate gli ipocriti dispiaciuti e tanto scossi. Quest’organizzazione aveva già fallito sulla carta. Ma ammetterlo evidentemente non era conveniente. Un individuo che già lavora per l’azienda non ha bisogno di essere ricompensato anche per il suo ruolo di tutor, questo sì che risulta conveniente.
Fingete anche di non vedere come le aziende stesse spesso approfittino della presenza di stagisti per far compiere loro i lavori più faticosi e, talvolta, perfino i più pericolosi. Di come le fabbriche spesso sfruttino la presenza di un individuo in più, che però, a differenza degli altri, non necessita di essere pagato. Di quanto spesso giovani ragazzi si trovino costretti a lavorare senza gli strumenti di sicurezza per consuetudine della fabbrica stessa o perché conviene a questa. O forse questo non lo avete semplicemente mai visto. Fatevi raccontare, allora, da coloro che queste cose le hanno viste e subite. Da chi non ha rifiutato le mansioni assegnate solo perché non voleva sentirsi chiamato “giovane”, uno dei tanti, uno di quelli che non conoscono la fatica.
C’è ancora bisogno dell’alternanza scuola-lavoro. Non si può comprendere pienamente la teoria senza applicarla al mondo pratico. C’è però anche bisogno di cambiare. E finchè non si decide di trovare una soluzione al problema, (che c’è ed esiste!), non si può perseverare guardando altrove e fingendo che tre stagisti morti in un anno siano ancora un dato accettabile.
Non potete continuare a mandare gli studenti a morire. Non potete permettervi di dire che ogni tanto è inevitabile, ogni tanto è necessario, ogni tanto il morto ci scappa. Perché “qualcuno sarà morto agli scout o alla gita dell’Arci, no? Che vogliamo dire di quelli?” l’ha detto Luca Bianchetti, un cittadino come tanti, laureato in psicologia ma professionalmente uomo d’affari (sorprendente?). E ancora perché “bisogna accompagnare fin dalla scuola media gli studenti nelle imprese” l’ha detto l’economista, ex ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi. E se potessimo citare tutti coloro che pensano sia, in fondo, normale che uno studente muoia in azienda, ma non lo esprime per timore delle conseguenze, la lista emblema del capitalismo sarebbe ben più lunga.
Non vi arrendete. Neanche davanti alla morte. State diventando i numeri del vostro profitto. Restate fermi a guardare. Vittime e carnefici allo stesso tempo. Continuate a sostenere lo stesso sistema che vi soffoca, inermi, che detta di produrre, consumare, ammalarsi ma guarire in fretta per ricominciare, e poi crepare. Un sistema che si reincarna nello scontro tra gli studenti manifestanti, coloro che vi gridano che li state uccidendo, e voi, che come i poliziotti li respingete usando violenza e manganelli.
Ancora oggi, a distanza di un anno, continuano le manifestazioni studentesche. Ed è questo che ancora dà speranza. Ed è questa la sola cosa che può, seppur minimamente, dare giustizia a Lorenzo.
Dovreste provare il dolore di incoraggiare un figlio a fare ciò che lo rende felice, pagare per dargli la miglior istruzione, e poi, un giorno, guardarlo salire sull’autobus, come di norma, e vederlo tornare in una bara. Allora capireste, forse.
Non si può morire per imparare a lavorare.
Non si può morire per lavorare.
Ma togliere le sicurezze velocizza il tempo di produzione, e quindi il rendimento, e quindi il profitto, e quindi… suona una campana a morto, l’ennesima.
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