di Clarissa Zuiani
Arriva dalla Capitale la mano che ha scritto una delle opere più toccanti e realistiche sul terremoto in Friuli del 1976.L’attenzione di Simone Cristicchi per la nostra regione e la delicatezza nell’esporre le vicende umane in tempi difficili erano già emerse nel suo spettacolo Magazzino 18 (2015).Questa volta, però, non si parla né di porti né di partenze: Orcolat ’76 racconta di chi rimane.
Il titolo stesso ne preannuncia l’intimità: non una catastrofe naturale, ma quel mostro spaventoso che, fra le vie di Gemona e dei paesi vicini, ha preso le sembianze di un orco.
L’attore romano, in occasione dei quarant’anni dall’avvenimento, ha prestato la sua voce alle persone che lo hanno vissuto, ponendosi prima di tutto in atteggiamento di ascolto. La stesura, infatti, è stata preceduta da più di un anno di ricerca in cui Cristicchi ha raccolto le impressioni di decine e decine di testimoni; “Ho incontrato persone che ne parlavano per la prima volta dopo quarant’anni: non l’avevano fatto prima perché nessuno glielo aveva chiesto.”
Se il “modello Friuli”, frutto della mentalità pragmatica tipica della nostra regione, ha avuto risonanza nazionale come esempio di operosità, Simone Cristicchi è stato il primo ad indagarne a fondo il lato strettamente umano. Ne è risultato un racconto toccante: delicato e accurato nel riportare i dettagli all’apparenza più insignificanti, completo e oggettivo nel trattare la complessità dell’intero evento.
Orcolat ’76 cattura l’attenzione dello spettatore e lo trascina in un continuo alternarsi di momenti di commozione, teneri dettagli del quotidiano e picchi di tensione. È la stessa voce dell’attore a rompersi più volte mentre parla dell’ingiustizia di una disgrazia che allinea tutti, annullando le differenze e le convenzioni sociali. Mentre le speranze di alcuni sono culminate con la gioia del ritrovamento dei propri cari, quelle di altri sono svanite nel passare delle ore. Muoiono i bambini, sopravvivono gli anziani.
Si parla di morte, di disorientamento, di sfiducia in un dio che non ha fatto distinzioni.
In questo clima, diventa chiaro a tutti quale sia la priorità: la vita umana. La struttura portante di quei dieci anni dopo il ’76, infatti, è l’umanità: il “modello Friuli” nasce dall’incapacità di abbandonare la propria terra e il proprio popolo e soprattutto dalla collaborazione disinteressata.
Cristicchi parla di mamme sepolte sotto i calcinacci con i propri figli, che raccontano loro storie per tenerli svegli nell’attesa della salvezza; racconta di un soldato calabrese che tiene la mano di un bambino finché questo non viene liberato; di persone sole che, non avendo altro da salvare che se stessi, si mettono al servizio dei propri vicini di casa; di un uomo che, con l’ombrello aperto sotto l’acquazzone, sta sulle macerie della casa che ha costruito con gli sforzi di una vita, perché sa che lì sotto c’è suo figlio e non vuole che si bagni.
Da lì, la risurrezione. L’impegno di tutta la regione, da Tolmezzo ad Aquileia, lo spostamento di risorse e uomini verso le città colpite, l’immediato impegno dei radioamatori, il contributo dei lavoratori di tutta Italia attraverso camion pieni di qualunque tipo di oggetti e intere autocolonne di militari e volontari. Con un sorriso, Cristicchi racconta di come tutto venga ricostruito: “Prima le fabbriche, poi le case, solo infine le chiese”.
In un’ora e mezza fra monologo, musica e canto, si ripercorrono dieci anni di impegno e ricostruzione. Uno scritto magistrale, che tratta con dolcezza, ma senza riserve, la parte più vicina e intensa della storia del nostro territorio.
Così si conclude, con sei parole lette in friulano da un attore romano, un’esperienza artistica e umana sensazionale.
Il Friuli ringrazia e non dimentica.
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