di Veronica Andrea Sauchelli – ex Rappresentante d’Istituto del Copernico

Ho sempre trovato molto affascinante il confronto fra Est e Ovest: l’Oriente ci è diverso, ma lo è in modo sorprendente, dicotomico. Il mondo musulmano, ad esempio: noi si legge da sinistra a destra, loro l’inverso. Qui tutto è letto in chiave economica, lì invece è la dimensione politica che conta. Per quanto ci riguarda la sovranità appartiene all’uomo, per loro appartiene a Dio e a nessun altro.

Storicamente nel mondo arabo è sempre stato molto forte il legame di sangue e la forza tribale, è stata l’Europa a portare verso di loro l’individualismo. E l’Islam, al momento della sua creazione, avrebbe voluto costituire il superamento della logica tribale stessa, consacrando invece il concetto di Umma, ovvero “comunità”, intesa come unione di uomini pari, giacché non esiste altra gerarchia se non quella fra Allah

ed il suo popolo.

Certo, poi eventi e uomini hanno nel tempo contribuito a complicare e sporcare la volontà prima del Dio di Muhammad, ma questo è un altro discorso. In breve, non in tutto il mondo l’individuo è la particella sociale prima e superiore.

Dopotutto anche l’Isis ha qualcosa da insegnarci, no? Quale di noi giovani cristiano-nativi sarebbe capace di un sacrificio tale, oggi?

Naturalmente è solo una provocazione, lungi da me osannare o elogiare il terrorismo, però questo tema è ricco di spunti di riflessione.

Il sociologo Farhad Khosrokhavar ha fatto un’analisi tagliente del fenomeno: “[per i giovani jihadisti europei] sembra emergere spesso anche una volontà di rottura con un mondo familiare percepito come individualista. Nelle loro scelte si scorge un rifiuto della cultura erede del Sessantotto che è stata assorbita in vario modo dai genitori. (…) Le nuove forme di radicalizzazione di una parte dei giovani europei descrivono anche la de-istituzionalizzazione della vita sociale e la crescente difficoltà interiore di ragazzi la cui adolescenza sembra prolungarsi all’infinito. La sottomissione a Dio, autorità trascendentale, può sopperire presso i più fragili la diluizione dell’autorità parentale e sociale cui si assiste”.

Loro sono la nostra cartina al tornasole, il termometro del nostro disagio, del bisogno di comunità e di senso di appartenenza, oltre che di significato e ruolo.

Questo cinismo condiviso, il credo nell’impotenza propria e altrui, e la perdita d’interesse verso le idee non ci fanno bene. Sono questi gli atteggiamenti che noi in primo luogo dovremmo rifiutare.

Sono stata rappresentante del vostro istituto, e non è andata bene. Forse mi ripeterò per chi ha già letto un altro mio pezzo, pazienza. La mia ferita più grande (sì, drammatizzo un po’, come si confà ai romantici cuori di sinistra) sono state le assemblee d’istituto. Ho memoria di due conferenze in particolare: ne organizzai una sull’acqua/bene comune (nel periodo in cui se ne rischiava la privatizzazione), e un’altra sul conflitto arabo-israeliano. Alla seconda, tra l’altro, partecipavano due ragazzi appartenenti all’una e all’altra parte, di cui uno portatore di un’esperienza molto forte: aveva visto il suo migliore amico morirgli davanti, sulle scale di scuola, colpito da un cecchino mentre attendevano la campanella d’inizio lezioni.

Alla prima vennero al massimo dieci studenti, alla seconda tre (mie amiche) più mia nonna, che con mio sommo imbarazzo continuava a fotografarmi in quel deserto dei tartari – per inciso: l’uso della tecnologia dovrebbe essere illegale per i nonni, che soprattutto con Facebook sono capaci di distruggere intere reputazioni con poche, tenere, conigliettose battute; sono dei gengis khan da tastiera, altroché.

Mentre si consumava il mio imbarazzo, più che altro nei confronti dei relatori visto che non eravamo riusciti a (di)mostrare nemmeno l’1% di interessati in una scuola di 1200 studenti, le palestre erano piene di colleghi infiammati dall’urgenza di consumare i loro match di pallavolo e calcetto. In una delle due occasioni c’era anche un affollatissimo torneo di briscola. E ogni volta, tra l’altro, tenere la gente all’interno

della struttura era una lotta, una lotta che a noi rappresentanti costava ore di confronti e impegno nell’organizzazione di “corpi di controllo”… purtroppo. I ragazzi sostanzialmente erano disposti a scegliere solo tra il gioco e il piacere del cazzeggio cittadino.

Liceo scientifico. Supposta élite studentesca. Pallone, carte e spritz. Certo, c’erano e ci sono anche le eccezioni, ma la maggioranza aveva e ha buoni motivi per imbarazzare se stessa.

La classe giovanile è una realtà di ragazzi tesi a soddisfare i propri piaceri più immediati, potrebbero chiamarci “generazione-zuccherino”, come i cavalli: quello interessa, e nulla più.

Il punto è non capire che prezzo ha la spontanea rinuncia ad un momento di collaborazione profonda, della costruzione di empatia e simpatia nel senso di “sentire assieme”.

Alcuni dati dicono che i disturbi d’ansia siano aumentati del 300% negli ultimi (soli) dieci anni, colpendo soprattutto il mondo dei visi freschi.

D’altra parte la ricetta è:

Prendete 3 kg di cinismo, aggiungetene 10 di narcisismo su cui riversare poi 2 litri di senso di inadeguatezza parzialmente nevrotico, mescolate applicando una forza di 200 newton verso l’urgenza di mera realizzazione personale, un panetto di morte degli ideali (biologico), un pizzico di precariato a fine cottura, e scollamento sociale (q.b.).

Come potrebbe essere diverso il risultato finale da una torta di inquietudine interiore?

Ho scelto il Copernico per un’atmosfera, credo. Una decisione di pancia di cui mi sono convinta sempre più strada facendo, nonostante i tre fissi in matematica e fisica. Però lì, nel mio piccolo, assemblee d’istituto a parte, ho trovato una comunità, una comunità fatta di qualche buon amico, professori che non erano solo professori, personale ATA che non era solo un anonimo strumento, bensì un manipolo di persone con cui godere dell’arte del reciproco interesse.

Una comunità che, oltretutto, mi ha cambiata molto. Ho varcato quelle porte da acerba ragazzina: superficiale, molto sciocca, priva d’intenti e -ahimè- con un look terribile. Come tutti, dopotutto: è difficile essere vasti a quattordici anni (e anche avere buon gusto in fatto di capelli e vestiti) .

Ad ogni modo, poi qualcuno mi ha fatto leggere i libri giusti, ed è scattato qualcosa. Mi si è accesa la coscienza sociale, come una fiammella, senza preavviso. Però, devo dire, ho chiaro dentro che quell’accensione è stata in qualche modo una scelta.

Non mi è solamente capitato, l’ho anche voluto.

L’ho voluto nel momento in cui ho intuito che una coscienza sociale dava a me -e ai miei problemi- la giusta dimensione.

Empatizzare e cooperare aiuta a correggere le distorsioni del proprio specchio.

È inutile poi dare la colpa a insegnanti o genitori se non si ha coscienza sociale e non si crede in nulla, è una responsabilità del singolo. Nessuna delle persone che sta leggendo queste righe ha un ritardo tale da giustificare un’incapacità di pensiero autonomo e di ricerca. Ognuno di noi ha il dovere di scegliere come affrontare il mondo, e a tutti conviene che non sia solo una nuda lotta contro i mulini a vento dell’ego.