Parte 2

di Giovanni Tomasetig

Il tizio non prende l’ascensore, si aggrappa al palo del corrimano delle scale con un’abbozzata e stranamente disinvolta mossa, come di ballo, e inizia a salire i gradini a due a due, in una mezza corsa…come di solito faccio io… Sono ancora disorientato da ciò che ho visto, ma lo seguo su per la tromba delle scale; in fondo non sembra avermi nemmeno notato, pur essendomi passato a poca distanza, e sento ancora i suoi passi rimbombare nei corridoi vuoti e spogli. Da un paio di rampe sotto, riesco ancora a vederlo mentre abbandona le scale per infilarsi su un pianerottolo e poi nel lungo corridoio tappezzato di piccole, identiche porte. Il mio piano. Il mio pianerottolo. Comincio ad avere paura. Il tizio nemmeno si guarda intorno, sembra sapere esattamente quello che fa, come se fosse un movimento meccanico e… quotidiano. Ora sta in piedi di fronte ad una porta. La mia porta.
Si fruga in tasca, estrae una chiave a cui sta appeso un portachiavi uguale al mio: devono essermi cadute le chiavi e deve averle trovate, anche se non so come faccia a sapere l’indirizzo, o ad avere la mia giacca e la mia faccia sputati. Comincio ora ad avere paura non solo per me, ma anche per tutti gli altri in casa: devo fermarlo. Sto camminando più in fretta che posso per non farmi sentire, ma ormai ha già fatto due giri con la chiave e apre la porta, entra in casa mia: è un intruso. Eppure, tutto ciò che dice è: “ciao mamma, com’è?”.
Sono paralizzato. La porta si chiude di fronte a me e ho solo il tempo di vedere mia madre, con il suo vestito rosa a pois, mentre imbastisce la tavola per la cena e si ferma per baciare lo sconosciuto dal mio stesso aspetto. Rimango un istante a guardare la porta blindata smaltata di bianco e la mia mano trema stringendo la chiave che in realtà non ho perso, perché ce l’ho in tasca. Cosa dovrei fare? Qualcosa mi dice di entrare. Inserisco la chiave e giro. Non ho sentito richiudere da dentro, ma devo ridare due giri anche io. La porta si apre. Mia madre è dentro che prepara la tavola per il pranzo, quando mi vede si ferma e dice: “Ciao amore! Come va? Com’è andata a scuola?” Indossa un vestito azzurro a righe bianche.
Sono confuso. Non so cosa sia successo. Mi stendo sul letto e getto lo zaino a terra. Non è la prima allucinazione che mi capita, ma di averne più di una contemporaneamente non mi era mai successo. Mi spoglio e vado in bagno. Mi sciacquo il viso e mi fisso nello specchio. Provo a sforzarmi, ad interrogare il mio riflesso, in cerca di una risposta alla mia confusione, ma non trovo nulla.
Esco per chiedere a Kat di vederci sul tetto. Ho bisogno di parlare con qualcuno. Girandomi per chiudere la porta vedo il berretto rosso appeso in corridoio: è quello che mio padre usa per viaggiare in treno a causa dell’otite. Ecco dove l’avevo già visto. Mi strofino gli occhi, attraverso il corridoio fino all’ascensore e vado su. L’ascensore emette un suono quando raggiunge il tetto: una specie di cigolio ma più acuto e prolungato. Non so se l’abbia sempre fatto, ma non l’avevo mai notato. Le porte si aprono ed esco camminando lentamente. Ha iniziato a nevicare e sento il freddo sulla pelle del viso.
Kat si accende la sigaretta e inizia a parlarmi della sua giornata, come fa sempre. In genere tento di ascoltarla, ma oggi le sue parole mi arrivano ovattate. Io l’ho sempre trovata una bellissima ragazza, Kat. Intelligente, sveglia e soprattutto coraggiosa. Sua madre è morta quando era così piccola da non potersi ricordare il suo viso. Si è sempre occupato suo padre di lei e di suo fratello Louis, che tutti chiamiamo Lou. Sono gemelli. Frequenta un liceo molto più costoso del mio, perché suo padre vuole che abbia la miglior istruzione possibile. Per un periodo lo abbiamo frequentato insieme, finché io non ho cambiato. Ama suonare il piano ed è così brava che a volte usano le sue registrazioni per delle cene di gala in un ristorante del centro, a cui le manda per fare due soldi in più. A volte però ne compone alcune solo per noi o addirittura solo per me. Sono musiche non troppo lente ma nemmeno troppo veloci e ritmate, che spesso alternano più stili e che io amo e mi riascolto in continuazione. Sono canzoni sulla velocità con cui passa il tempo, sull’amore burrascoso o dolce, sulla rabbia, sul potere dei soldi, insomma su tutto ciò che io e lei condividiamo. Pensare a tutte queste cose mi distrae e mi rilassa così piano piano riesco a concentrarmi su di lei.
La guardo e penso a quanto sia bella. Noto solo ora che ha tinto i capelli color platino e le dico che le stanno molto bene. Lei mi sorride in un misto fra lo stupito e il divertito e mi dice: “È una settimana che me li sono fatti e che continui a dirmi che mi stanno bene, ma grazie” e poi ride. Non me lo ricordo assolutamente, ma ammetto di essere stato abbastanza distratto ultimamente. Mi unisco alla sua risata e ci guardiamo negli occhi. Lei si tira una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi dice: “Senti, scusami per quella sera, ok? È che era inaspettato e ho reagito in un modo strano, ma questo non vuol dire non mi sia piaciuto quello che hai fatto, solo non me lo aspettavo, tutto qua”. Non capisco subito di cosa stia parlando, ma penso si stia riferendo a una qualche serata passata insieme in cui devo aver fatto qualche idiozia per impressionarla. Il nostro rapporto è strano, perché è come un’amicizia, in cui però entrambi flirtiamo o cerchiamo di piacerci. Non lo so.
Fingo di comprendere e resto in silenzio, guardando verso gli altri palazzoni, finché non sento che è il momento giusto per far trasparire che forse qualcosa lo sento. Mi rigiro verso di lei e la guardo, mentre lei mi stava già guardando; le metto due dita sotto il mento e lo sollevo piano. Poi la bacio. Sento che è un mezzo errore, ma non così grosso perché in fondo mi piace e forse è la cosa giusta da fare. Lei mi mette le braccia intorno al collo e capisco che è fatta, che ci sta… Poi succede: non sento più niente, né labbra né la stretta intorno alle spalle. Apro gli occhi e davanti a me c’è sì Kat, ma ha di nuovo i capelli del colore naturale e mi guarda con aria interrogativa: “Ma che fai?!” mi chiede, come se l’avessi appena aggredita. Mi guardo intorno e riguardo lei. Porta vestiti diversi, ha un trucco diverso. Non è la stessa Kat. È un’altra.
Non capisco ed evidentemente nemmeno lei, ma poi mi giro e vedo nell’ascensore l’altra Kat, che mi saluta agitando la mano. Le porte si chiudono davanti ai suoi chiari capelli, che quasi emettono illuminazione propria, riflettendo quella della stanzina semovente e la luce che segna la discesa si accende. Mi rigiro e lei, confusa, mi fissa: “Cosa…cos’era questo?”
Vorrei dire qualcosa, ma non sono nemmeno sicuro di aver capito quello che mi ha chiesto. I suoni mi arrivano come da dietro un pannello di vetro. Il freddo della neve mi lascia indifferente. Vedo il suo viso, ma la mia mente è immersa in un’oscurità completa: È successo di nuovo. Mi prendo la testa fra le mani, non capisco, non capisco come tutto questo sia possibile. “Scusami devo andare” le dico. A lei luccicano gli occhi mentre mi urla: “No no, aspetta non volevo…” ma non la sento. Entro nell’ascensore che mi aspettavo essere ancora lì, in realtà, e schiaccio il tasto di chiusura delle porte per scendere più in fretta.
Il metallo delle porte mi pone di fronte al mio riflesso. Appoggio la schiena contro la parete gelida alle mie spalle e chiudo gli occhi. Cosa ho fatto? Cerco di smettere di pensare e di concentrarmi su altro. Osservo nei dettagli l’ascensore. La lucina che segna i piani scorre lentamente da destra verso sinistra indicando che sto scendendo. Stasera va estremamente lenta. Il freddo della lamiera dietro di me penetra anche attraverso la mia giacca. La mia mano sfiora i tasti rovinati da quei condomini che li premono con le chiavi. Volto la testa verso la parete specchiata alla mia sinistra. Essendo due delle quattro pareti dell’ascensore fatte a specchio è stupefacente l’effetto tunnel che si crea. Guardando in fondo vedo decine di versioni di me che si muovono all’unisono. Tutte fissano dritte verso di me. Mi muovo per un po’ osservando il movimento che si crea, cosa che mi ha sempre divertito e penso che sarebbe quasi divertente se ognuna di queste fosse un mio clone. Penso a quanto divertente sarebbe fare qualcosa per verificarlo.
Appena formulato questo pensiero, l’ultima in fondo alza il braccio. La seguente la imita. La successiva anche. Dovrei sentirmi spaventato, perché immagino sappiate come funziona un riflesso: tu fai qualcosa e lui la imita, non il contrario. La lucina segue il suo lento percorso mentre la curiosa coreografia prosegue fino a me. Mi sembra quasi di sentire il fruscio di maniche di vestiti che si arresta bruscamente. Sono preoccupato nel fare ciò che faccio. Mi giro a guardare il tunnel sull’altra parete, ma nessuna delle figure si muove,anzi, mi danno tutte le spalle. Mi muovo per avvicinarmi a osservarle e loro non si spostano. Vedo l’attaccatura dei miei capelli, un po’ troppo cresciuta per il mio taglio corto, la toppa sulla mia giacca, l’etichetta della maglietta che sporge dal colletto, il telefono che sporge dalla tasca posteriore dei pantaloni. Le figure non si spostano, come in attesa di un ordine. Una goccia di sudore mi scende sulla tempia. Alzo il braccio. La coreografia riparte come una molla che scatta appena si toglie il dito che la tiene ferma. Dovrei avere paura?
La lucina ha finito il suo breve viaggio, le porte si aprono con il tipico suono di campanellina riprodotto digitalmente ed esco nel corridoio. I miei passi sono attutiti dalla moquette ma li sento comunque pesanti e rimbombanti dentro di me.
Apro la porta di casa e non mi rendo nemmeno conto se qualcuno mi saluta o no. Vedo i miei seduti sul divano e li saluto con un cenno. Mi dirigo verso il corridoio ed entro nel reparto notte, da cui esce anche mia madre con un cesto di roba da lavare. Deglutisco e la saluto sforzandomi di sorridere. Tutto mi sembra andare al rallentatore. Passo di fronte allo studio, da cui mio padre mi sorride alzando un attimo la testa dal computer. Lo saluto con un cenno.  Entro in camera mia e crollo sul letto. Che situazione, mi dico rigirandomi a fissare il soffitto. Mi pare di vedere doppia persino la lampadina della luce che pende sopra il mio letto. Devo andare a sciacquarmi la faccia. Mi alzo ed entro nel bagno adiacente alla mia stanza.
Una meno dignitosa e più incupita versione di me sta seduta sulla tazza fissando il vuoto. Normalmente sarei scioccato da una cosa del genere, ma resto a fissarlo muto come farebbe un bambino osservando un animale allo zoo. Lui gira la testa e mi guarda con la stessa espressione. Dev’essere una scena abbastanza triste, vista dall’esterno: due cloni, di cui uno nudo dalla vita in giù, troppo distrutti per dire o fare qualcosa che si guardano senza capire bene cosa diavolo stia succedendo nella loro vita, ma troppo stanchi per anche solo provare a spiegarlo.
Mi lavo come prestabilito ed esco dal bagno, al volo mi infilo la giacca e prendo le chiavi. Nessuno dei due ha detto niente, ma ci siamo capiti anche senza parole. In fondo non dovrebbe essere strano, considerato che siamo la stessa persona. Apro la porta che scricchiola leggermente ed esco di casa salutando. Un numero indefinito di voci mi risponde da dentro.
Scendendo le scale incontro prima Kat, con i suoi capelli platinati, ma con un po’ di ricrescita, che forse tenta di dirmi qualcosa, ma non riesco ad ascoltarla. Poi incontro Roy, un altro ragazzo del palazzo, poi l’usciere che sta salendo non so bene per quale motivo e poi di nuovo Kat, con un taglio più scuro e corto, che non mi saluta nemmeno.
Nell’atrio passo a controllare la cassetta della posta e raccolgo le poche scartoffie che ci sono dentro: più tardi le porterò su, ma nel frattempo me le infilo in tasca. Con un cenno della testa saluto l’usciere, tranquillo e probabilmente addormentato dietro il suo bel bancone, visto che non replica. Esco in strada. La neve cade abbastanza fitta e sento freddo alle mani, così le infilo nelle tasche, in cui non sento più la posta. Poco importa: la prenderà qualcun altro.
Mi avvio per la strada e in lontananza vedo Roy e Kat. Penso mi farò due passi con loro. Non è il caso di pensare così tanto, forse…