di Serena Andreucci

Questa, più che una recensione, vuole essere una vera e propria riflessione che ha sì le sue radici in “Departures”, il film di Yojiro Takita vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero nel 2009, ma che poi abbraccia il tema centrale nella sua generalità e il significato che esso ha per me.

Durante la discussione in classe seguita alla visione del film molte sono state le opinioni espresse, molti i temi evidenziati, molte le critiche, ma per la prima volta io mi sono completamente trovata indifferente davanti a qualunque cosa venisse descritta. Avevo già iniziato ad elaborare ciò che per me era stata la visione di tale pellicola, che magari non è stata la migliore a livello tecnico, ma sicuramente la più forte sul piano emotivo e riflessivo tra tutte quelle che io abbia mai visto.

La morte: questo per me è il vero tema del film. Non da un punto di vista religioso, filosofico o poetico, bensì la morte nuda e cruda. La fine. The end. Prima ci siamo e poi… puff, tutto finito. Spogliando tale evento da tutte le consolazioni che di solito accalchiamo ossessivamente intorno a quello che oggi è diventato praticamente un tabù, ci troviamo di fronte ad una verità agghiacciante.

Andiamo all’ospedale e cerchiamo in ogni modo di evitare i reparti con i malati terminali, le madri chiudono gli occhi ai bambini quando in un film muore qualcuno, l’umorismo macabro risulta più sgradevole che una fiumana di volgarismi. Quello che io mi chiedo, da essere umano, è come sia possibile una tale cecità.

Bisogna ammettere che in alcune culture la fine di una vita risulta occasione di festa, in altre solo un punto e accapo prima di un nuovo inizio. Qui in Europa, invece, solo il pronunciare quelle cinque lettere che altro non sono che una parolina di due sillabe, è pressoché inaccettabile. Nel corso della nostra vita, chi più chi meno, incontriamo migliaia di vocaboli più importanti di questo: empiriocriticismo, coniugi, prole, pasto, antidisindustrializzazione, … la lista è infinita.

Non conosco quale sia l’atteggiamento dei credenti davanti alla morte e, personalmente, non mi interessa. Reputo la religione, principalmente quella cattolica, un tentativo finito male di trovare un espediente a fatti incomprensibili, una serie di dogmi da accettare anche quando il mondo ormai è andato avanti e dispone di tutte le spiegazioni che non solo li screditano, ma li annullano completamente. Questa, però è solo la mia opinione personale che ho qui espresso per chiarire le basi da cui ho poi elaborato il mio ragionamento.

C’è stato un tempo, ormai più di una decade fa, in cui credevo, credevo in un modo quasi sconvolgente e molto privato che ci fosse veramente un Dio. E’ stato il primo lutto che ho dovuto affrontare a farmi ricredere. Non avevo chiesto la vita eterna per mio nonno, ma solo un altro po’ di tempo, qualche anno così da poter essere grande abbastanza per potermi ricordare di lui. Come è facilmente intuibile a nulla è servito.                                                                                                                                                                                       Il tempo è passato e più volte mi sono trovata sulla sua tomba o su quelle dei cari che nel frattempo sono mancati. Ogni volta percepivo l’inutilità di quel luogo. Un campo di lapidi sotto le quali c’erano dei corpi inerti o le ceneri di coloro che una volta condividevano le giornate con noi. Una valle di lacrime versate da famigliari, amici, sconosciuti. Sì, sconosciuti perché non ho mai visto così tante menzogne messe assieme come durante un funerale. “Era una persona d’oro”, “le sue risate erano così contagiose”…, e invece nella vita reale mai una conversazione… Ed è in qualche modo normale, perché parlare male di un cadavere risulta fuori luogo, come se offendendo chi non può difendersi ci gufassimo da soli la stessa sorte.

Anche per questo tutto il rito funebre classico e la sepoltura mi sono sempre sembrati inappropriati se penso pure alla mia dipartita. La sola idea di essere mangiata dai vermi o che i miei cari debbano sopportare la vista di bravi attori che si presentano giusto per la recita mi fa venire l’orticaria. Come se due lacrimucce e delle condoglianze potessero sollevarli da tutte le mancanze o dagli errori commessi.

Ed è in questo punto di stallo, in cui non sapevo ancora cosa fosse per me la morte, che si inserisce il film. Come un catalizzatore in una reazione chimica, esso ha fatto viaggiare la mia mente ad una velocità impressionante, portandola in un nanosecondo davanti a quella che mi è apparsa in tutto e per tutto come una verità assoluta.

La morte è semplicemente la soluzione dell’equazione che è la nostra vita. Un’operazione ricca di parametri e variabili che può essere risolta più o meno velocemente, ma che ha come unica certezza quella di avere una risoluzione.

Ora, questa metafora è per me così legata alla matematica poiché ritengo di essere una persona estremamente razionale e analitica, ma credo valga la stessa cosa se al posto dell’equazione si inserisse un qualunque altro oggetto. Più musicalmente, il punto che chiude la poesia della nostra esistenza.

Ma se siamo destinati a svanire, perché da atea convinta la vita dopo la morte e la reincarnazione sono argomenti totalmente irrealistici, che senso ha esistere? Beh, molti filosofi hanno impiegato ogni loro sforzo per trovare una risposta a questa domanda e di certo non sarò io a darla. Posso solo dire che per me la vita vale la pena di essere vissuta solo per la gioia di scoprirsi vivi. Il qui e ora. Io esisto in questo mondo, posso agire, interagire, modificarlo e modificarmi a mio piacimento. Azioni troppo scontate per essere prese sul serio nella quotidianità, certo. È questo il motivo per cui amo camminare con le cuffie nelle orecchie: mi regalo l’occasione di perdermi con lo sguardo nei più piccoli particolari, elevando l’ordinario allo straordinario e rendendomi finalmente conto che tutto questo non è scontato. Il sole potrebbe essere blu, il mondo dominato dalle papere, i miei genitori potrebbero non essersi incontrati, io potrei non esistere.

Io. Potrei. Non. Esistere.

Ma non è un po’ come dopo la morte? Assolutamente no. Che la propria vita sia durata pochi minuti o un secolo ne varrà sempre la pena, o meglio, sta a noi fare in modo che sia memorabile.                                    

“E’ meglio aver amato e perso, che non aver mai amato” diceva Tennyson. Ma non è lo stesso con la nostra esistenza? E’ meglio aver vissuto ed essere morti che non aver mai vissuto. Ciò che poi resterà di noi sarà un cadavere e il nostro ricordo nelle menti di chi ci ha accompagnato durante il nostro viaggio. A loro vengono affidati anche i nostri averi, uniche testimonianze concrete della nostra esistenza. O così vogliamo credere. Una spazzola resta una spazzola e, anche se un giorno questa finisse nelle mani di un estraneo, nulla gli farebbe sapere che è appartenuta a noi, che eravamo soliti spazzolarci quando eravamo nervosi, che ogni mattina litigavamo con i nodi inveendo contro la sveglia che puntualmente non sentivamo. Come gli oggetti non hanno una voce per tramandare le loro esperienze, così le nostre lapidi non comunicheranno nulla se non un nome, due date e una foto un po’ sbiadita. I nostri cari moriranno o cambieranno città, le erbacce cresceranno, la pioggia continuerà a cadere e quel bel blocco di marmo diventerà una roccia brutta e opaca coperta di muschio.

Ma a noi questo non farà alcun effetto, perché come detto prima, di noi allora non ci sarà più nulla da lungo tempo.

Quello che voglio dire è che lapidi, mausolei, sarcofagi, colombaie, pire funerarie, riti voodoo o qualunque altra cosa sono sopravvalutati. Foscolo, giustamente, diceva che le tombe servono ai vivi e non ai morti, per aver un posto dove piangere e ricordare. Questo pensiero è tipico della mentalità occidentale e francamente a me fa venire il voltastomaco, con tutto il dovuto rispetto. Che gioia c’è nel ricordare una persona amata in un luogo di morte e desolazione, piangendo sopra un corpo mangiucchiato dai batteri? Più che un omaggio sembra una punizione. La mia memoria deve accompagnare chi mi ha voluto bene nei momenti di gioia, ovunque essi siano. Nelle loro risate deve echeggiare il loro attaccamento alla vita e nella loro gaiezza una parte della loro anima ripercorrerà i bei momenti passati assieme in un tacito ringraziamento.

Il lutto vuole essere assimilato, ma non come un macigno indigesto o come una ferita cicatrizzata male che a ogni sforzo ci tornerà a far male. Dopo un primo periodo di lecito dolore, esso va accolto e trasformato in un ricordo positivo, come una sorta di dolce malinconia unita ad una serena accettazione.

Ed è quello che in Departures il tanato esteta regala alle famiglie in lutto. Ridando ai corpi l’aspetto che avevano da vivi, i parenti riescono ad andare oltre al dolore e raggiungono i ricordi messi in secondo piano, i momenti trascorsi assieme. Questo piccolo rito li guida verso l’elaborazione costruttiva di quanto accaduto.

In fin dei conti, nessuno di noi può dire di essere stato per tutta la sua vita la stessa identica persona. Da bambini siamo diventati adolescenti, giovani uomini e donne, madri o padri, amici, compagni, nonni… Ogni piccolo passo ci modificava inevitabilmente e quando ci giravamo indietro a volte rimpiangevamo ciò che eravamo. “Quanto vorrei tornare ai bei tempi quando il problema più grande era scegliere il colore della caramella dal dottore”. Bello essere bambini, terribile scoprirsi così diversi da ciò che si era immaginato, l’impossibile desiderio di tornare al punto di partenza e dover invece andare avanti. Non sono queste delle piccole morti? Il bambino in noi è, di fatto, morto. Non esiste più perché ora c’è un nuovo noi. Ma non per questo possiamo passare la nostra vita rimpiangendolo. Dobbiamo ricordarlo con affetto sincero e un velo di sana malinconia, mettendo in pratica ciò che ci ha insegnato, rendendolo fiero di noi, dimostrando che siamo capaci di vivere anche senza di lui, ma che grazie a lui abbiamo capito quanto questo valga.

Una volta ho letto una frase che mi ha dato molto da pensare: “La vita chiese alla morte: – Perché gli uomini amano me, ma odiano te? – E quella rispose:- Perché tu sei una bella bugia e io una dolorosa bugia-” Non credo sia del tutto vero. La morte è odiata perché non capita, vista solo come l’iniziale dolore cieco e non come fine di un dono grandissimo concessoci da chiunque si voglia credere: la vita.

Come tutti i bei libri hanno una fine, i film un “the end”, una canzone una nota conclusiva, l’universo dei confini, così la vita ha una morte. E’ naturale e inevitabile. Ma non è forse questo, ritornando al credo, il motivo per cui gli angeli invidiavano tanto gli uomini? La brevità della nostra esistenza ci spinge ad amare, odiare, soffrire, gioire ed infuriarci con tutto il nostro essere, senza esclusione di colpi. Che senso ha concedersi completamente a qualcuno poco dopo essersi conosciuti, se si ha un’eternità per stare vicino? Che motivo di brillare come una supernova, consumandosi in qualche decennio, se si hanno i millenni per emettere un lieve e costante bagliore?