di Francesca Virgolini

La mente umana: cosa ci può essere di più strabiliante, di più stupefacente della capacità della mente dell’uomo di comprendere e analizzare lo spazio e gli oggetti intorno a sé, di essere cosciente di se stessa, di sviluppare concetti astratti o fare calcoli matematici, di provare empatia per gli altri, di apprendere in modo più profondo e preciso di qualunque altro essere vivente non solo elementi che potrebbero essere utili all’immediata sopravvivenza dell’individuo, ma anche concetti e nozioni per il puro piacere di conoscere?

Dalla più tenera età, la nostra mente è una compagna costante, indispensabile a noi stessi per identificarci come individui e orientarci nel mondo. Prima ancora che un bambino impari che un albero è un albero, il suo cervello deve avere assunto la capacità di poterlo identificare, prima di sapere che 7+5=12, in qualche parte recondita della nostra mente deve essere presente la capacità di far di conto, capacità che è impossibile trovare in un pesce o in un suricato. Perché allora queste differenze fra la specie umana e le altre specie animali? In cosa il cervello dell’uomo è differente e perché abbiamo sviluppato tali capacità? Indubbiamente il mistero della mente umana solleva molteplici interrogativi.

Fin dall’antichità molteplici filosofi e pensatori hanno cercato di sciogliere il nodo della matassa riguardante il rapporto tra mente e corpo, tra quello che lega noi al mondo esterno e che ci permette di conoscere e apprendere. Basti pensare alla distinzione fra corpo e anima per gli antichi greci, la res cogitans e la res estensa di Cartesio, oppure la conoscenza a priori e a posteriori di Kant, che si interroga su come e su cosa l’uomo possa conoscere, fino a Freud, che pone le basi della psicanalisi. Un importante ruolo al giorno d’oggi è svolto dalla neuroscienza, scienza che si occupa dello studio della mente umana e del suo funzionamento, attraverso lo studio delle varie aree del cervello e dei processi neurobiologici che le interessano. Essa si pone l’obbiettivo, come per certi aspetti fa anche la filosofia, di conoscere i meccanismi intrinsechi del nostro cervello, al fine di trovare rapporti causali fra di essi. In particolare, un interessante quesito è quello riguardante la coscienza.

“‘Il problema della coscienza’”, scrive il filosofo R. J. Searle nel suo elaborato Il mistero della coscienza del 1997 (Cortina, Milano, 1998), “è il problema di spiegare esattamente in che modo i processi neurobiologici del cervello causino i nostri stati soggettivi di consapevolezza e sensibilità, come esattamente questi stati vengano realizzati nelle strutture del cervello e in che modo funzioni esattamente la coscienza nell’economia generale del cervello e quindi in che modo essa funzioni in generale nelle nostre vite”. Egli prosegue dicendo che se si potesse risolvere la questione causale, ovvero qual è la causa della coscienza e che cosa essa causi, si potrebbe risolvere quesiti come ‘In quali zone del cervello sono esattamente localizzati i diversi processi coscienti e perché ne abbiamo bisogno?’ e in generale chiarire il mistero della coscienza.

Interessanti scoperte sono state fatte dalla neuroscienza in questi campi. Pare che molti processi all’interno della nostra mente di cui noi ci rendiamo conto a livello cosciente, come la capacità di vedere e di riconoscere un oggetto, siano in parte frutto di processi che avvengono a livello cosciente e in parte no. Come spiega il neuroscienziato V. Ramachandran nel suo libro “L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana”, anche solo un processo che a noi può sembrare semplice e naturale come la vista di un oggetto è frutto di complicati processi all’interno della nostra mente, che coinvolgono un numero elevato di aree altamente specializzate che sono legate fra loro, in individui normali, da un flusso di informazioni costanti. Una tra le cose più sorprendenti è che, nonostante il nostro essere coscienti della presenza dell’oggetto che vediamo, non tutti processi che portano alla sua identificazione avvengono a livello cosciente come noi potremmo presupporre. Questo è stato dimostrato grazie a studi su pazienti colpiti da un ictus che aveva danneggiato una specifica area del cervello, lasciando intatte molte altre preposte alla vista: questo avvenimento, quindi, aveva modificato in parte il modo in cui il paziente era cosciente di ciò che stava intorno a lui. Per esempio, ci sono stati casi di pazienti colpiti da ictus ai quali è stata mostrata una carota, che essi vedevano e sapevano ridisegnare nei minimi particolari, ma nel momento stesso in cui veniva chiesto loro cosa la carota fosse in sé, essi con sguardo vacuo rispondevano che non ne erano certi, ma poteva assomigliare a un pennello o a oggetti simili. Se si chiedeva a questi pazienti di disegnare un fiore, essi attribuivano il nome rosa o giunchiglia a disegni che per loro erano fiori, ma che in realtà erano forme che non solo non corrispondevano a quelle di una rosa o una giunchiglia, ma addirittura non esistevano nella realtà. Allo stesso modo, pazienti che avevano subito danni cerebrali più gravi, potevano sì essere in grado di percepire sensibilmente il mondo intorno a loro, ma non erano in grado di interpretarlo a livello cosciente.

Un esempio così semplice e riconducibile alla vita di tutti i giorni è già di per sé fonte di un’innumerevole (ed estremamente interessante) quantità di domande. Perché alcuni processi della nostra mente avvengono a livello cosciente e altri no? Cosa la nostra mente sarebbe in grado di fare, anche senza l’esperienza sensibile, anche senza percezione del mondo intorno a noi? Ramachandran, sempre nel suo libro sopra citato, fornisce a noi la spiegazione di un fatto quantomeno inquietante, riguardante lo strano caso di un sinesteta daltonico. Un sinesteta è una persona che, a quanto gli neuroscienziati ipotizzano, presenta una più elevata densità di connessioni fra neuroni che sono stimolati da sensi diversi, per esempio quello dell’udito o della vista o del tatto. Un sinesteta, per esempio, potrebbe essere capace di vedere letteralmente dei colori all’udire delle note musicali o sentire nella realtà dei suoni nel momento in cui tocca un qualcosa di morbido o di ruvido. In particolare, a questo sinesteta di cui il Ramachandran parla nel suo libro era invisibile il colore rosso a causa del suo daltonismo. Tuttavia, da esperimenti scientifici e dalle sue dichiarazioni di vedere un “colore alieno” che non percepiva nella realtà, emergeva il fatto che lui vedeva nella sua mente il colore rosso in risposta a degli stimoli sensoriali non collegati con la vista. Come potrebbe ciò essere lontanamente possibile? Come possiamo percepire nella nostra mente un colore che non abbiamo mai visto nella realtà o percepito coscientemente? Significherebbe che i colori sono qualcosa che la nostra mente conosce a priori e non sono collegati alla materia e alla luce? Oppure c’è qualcosa di più, di cui noi non siamo ancora conoscenza?

È indubbio che la mente umana racchiuda dentro di sé molti misteri, prima di tutto quello della coscienza e di cosa lega la semplice percezione sensoriale a una più avanzata elaborazione dei dati, fino a giungere alla tanto discussa domanda “chi sono io?” e alla nostra identificazione come individui separati dagli altri che sono in grado di pensare autonomamente. Tuttavia, lo studio del cervello umano e dei suoi meccanismi pone anche dei problemi etici che è importante prendere in considerazione. R. J. Searle scrive, sempre ne Il mistero della coscienza, che, scoperti i meccanismi del nostro cervello, “il problema della coscienza diviene un progetto di ricerca scientifica come qualsiasi altro”. Questo significa che il cervello, come un braccio o un’auto o un orologio, verrebbe studiato come nello studio di una macchina vengono studiati i suoi meccanismi. A cosa potrebbe portare questo? Se tutti i processi cerebrali fossero determinati da rapporti di causa-effetto, che fine farebbe la volontà, il libero arbitrio tanto caro all’uomo?

È lo stesso problema che anche la filosofia meccanicista si è posta a suo tempo. Se ogni azione dell’uomo è conseguenza inevitabile di un insieme di molteplici fattori, allora l’uomo non avrebbe libertà di scelta. Cosa potrebbe comportare questo nella società? Potrebbe un assassino essere giudicato colpevole di un omicidio, se l’azione che ha commesso fosse stata inevitabile? La stessa struttura di un processo penale salterebbe: giudicare una persona colpevole non avrebbe più senso, poiché questo implica che ci sia stata la possibilità per essa di scegliere di non macchiarsi di quel crimine e quindi di restare innocente.