di Lisa Pinto

Accendo la sveglia e controllo di averla impostata all’orario corretto, altrimenti come al solito rischio di arrivare in ritardo a scuola.
La cartella è preparata da un pezzo; mi infilo rapidamente il pigiama, saluto genitori e sorella e torno in camera. Faccio qualche carezza al gatto, che altrimenti, offeso, mi tiene il broncio per giorni e al massimo mi rivolge qualche miagolio affamato se nessuno si è ancora degnato di cibarlo. Mi infilo sotto le coperte calde e sento già i pensieri che si annidano: ronzano come falene intorno ai lampioni accesi e la notte mi tengono sveglia. Tento di rilassarmi, di allontanare paranoie e ansie respirando profondamente. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Inspira. Espira.
Le palpebre iniziano ad essere pesanti e in pochi minuti mi assopisco.
Un lungo corridoio mal illuminato si estende davanti ai miei occhi e anonime porte si susseguono senza un apparente termine. Un odore di chiuso e polvere mi invade le vie respiratorie, mentre una moquette sbiadita attutisce il rumore dei miei passi.
Dopo un paio di minuti alla ricerca di un’uscita, decido finalmente di schiudere una delle porte. Mi avvicino, stringo la maniglia d’ottone lucido e, con uno schiocco, dalla serratura intravedo uno spiraglio di luce. Decido di spalancare la porta, nel peggiore dei casi mi ritroverò nel bel mezzo di una riunione aziendale in pigiama. Apro la porta aspettandomi i soliti arredi: scrivanie, librerie, tavolini e sedie dallo stile discutibile e…e invece una luce abbagliante mi avvolge.
File di alberi e campi di fiori mi circondano, lasciandomi sgomenta. Sono sicura che sia tutto solo un sogno, ma è tutto così reale, sento la brezza leggera scompigliarmi i capelli, già di per sè disordinati; i fili d’erba mi solleticano le caviglie e il sole mi scalda la schiena con il suo calore inconfondibile.
Nonostante l’euforia generale, cerco di rimanere lucida e decido di non richiudere la porta alle mie spalle bloccandola con ciò che ho a disposizione.
Sento in lontananza lo scorrere di un corso d’acqua e decido di avvicinarmi cautamente. Per ora non sembra essere un luogo ostile, o almeno non diverso dalla campagna della periferia della cittadina dove abito, ma non giungo a verdetti troppo affrettati.
Raggiungo l’argine del torrente, dove l’acqua scorre con un ritmo allegro zigzagando per la campagna circostante. Mi fermo ad osservare il paesaggio, scruto in lontananza una catena di montagne, le cui cime sono coperte da un velo bianco uniforme. Osservo l’acqua limpida scivolare nel letto del fiume e la vegetazione dai toni accesi che mi avvolge. Decido di avvicinarmi maggiormente e di sfiorare con la punta delle dita quel continuo flusso rinfrescante. Arrivata in prossimità dell’argine, qualcosa mi tocca la spalla. Trasalisco e perdo l’equilibrio, cadendo con un tonfo e innumerevoli schizzi all’interno del corso d’acqua gelido. Come se non fossi già abbastanza irritata dall’accaduto, una voce squillante e cristallina ride di gusto alle mie spalle. Tento di alzarmi, ma appoggio il piede su una roccia particolarmente scivolosa e piombo nuovamente nel torrente tra le risate dell’ospite indesiderato.
Finalmente, con calma, riesco ad uscire dalla corrente; il pigiama fradicio a contatto con la pelle mi infastidisce, così come i capelli appiccicati alla nuca.
La voce, sempre alle mie spalle, richiama la mia attenzione ridendo. Mi volto di scatto e una giovane ragazza dai lunghi capelli scuri legati in una treccia morbida mi osserva. È poco più alta di me, i tratti del viso sono morbidi e delicati, mentre gli allegri occhi color nocciola mi squadrano da capo a piedi. Indossa dei pantaloncini corti dall’aspetto trasandato e una camicia sottile dalla stampa floreale. Intorno al collo ha una catenina argentata dalla quale pende un piccolo minerale turchese di forma triangolare.
Si siede sul prato giocherellando distrattamente con una margherita. Distoglie lo sguardo dalle sue mani e mi osserva sorridente. Evidentemente si aspetta che sia io ad iniziare la conversazione; la accontento con una domanda secca «Chi sei?».
La risposta è preceduta da un breve silenzio, come se dovesse pensarci su. «Samanta, mi chiamo Samanta. Non pensi invece che la vera domanda sia chi sia tu? Insomma, non sono certo io ad essere piombata così nella tua realtà.». Mi sento presa in causa, come se fosse stata una mia scelta quella di finire nel suo mondo. La brezza prima piacevole inizia a farmi tremare, fradicia come sono. Voglio tornarmene a casa e l’unico modo per farlo è chiedere aiuto, mio malgrado, a Samanta. Tento di spiegarle la situazione, per quanto incredibile, e cerco nel suo sguardo allegro un segno di comprensione. Il discorso che segue mi colpisce: anche lei è passata per il corridoio, ha scelto una porta casuale ed è giunta fin lì. Dice che è disabitato, che l’ha trovato sereno e pacifico e, da quel momento, ogni notte ritorna tra i suoi alberi e i prati fioriti.
Inizio a provare simpatia per Samanta e sembra che il sentimento sia reciproco.
Improvvisamente si alza di fretta, mi dice di aspettarla lì e, dopo pochi minuti, torna con una coperta a quadretti che mi adagia sulle spalle.
Passiamo le ore seguenti discutendo del passatempo migliore durante le giornate fredde e uggiose, del romanzo che più ci ha colpito, dei nostri autori preferiti e di come ci vediamo da adulte. Il tempo trascorre rapido, il sole scende lentamente dietro le alte cime innevate e inizia a prendere posto, timidamente, lo spicchio luminoso della luna.
Tra risate e confessioni, Samanta sembra pensierosa, quasi nostalgica. Le chiedo cosa le abbia fatto cambiare così rapidamente umore.
«Non so quanto a lungo potremo ancora rimanere qui. Devo avvertirti di alcuni particolari. Devi sapere che quando qui è notte, nella realtà è pieno giorno e, quando verrai svegliata lì, scomparirai da qui. Ora che hai scoperto il tunnel per accedere ai mondi notturni, poi, ci potrai tornare ogni notte. È importante però sapere che potrai saltare da una porta all’altra finché vorrai ma, una volta che troverai il tuo posto, quel luogo dove ti senti sicura, protetta e felice, sarà sempre la sede dei tuoi viaggi. Comprendi? Io il mio l’ho trovato ed è qui.
Le porte che sembrano anonime e senza segni particolari, poi, una volta visitate lasciano un piccolo segno indelebile: una minuscola pietra intagliata appena sotto la serratura per riconoscerle. Quando troverai il tuo mondo, otterrai una copia della pietra che simboleggerà il legame tra te e il luogo prescelto. Potrai farne ciò che desideri. Questa è la mia e desidero donarla a te perché così saprai sempre dove venire a rifugiarti quando avrai bisogno di aiuto». Così dicendo, tutto d’un fiato, Samanta si sfila con un gesto rapido la catenina con la pietra e me la piazza raggomitolata nel palmo della mano; la prendo e la faccio scivolare dolcemente all’interno della tasca del pigiama.
Senza parole, mi avvicino per abbracciarla, la saluto e le prometto che tornerò molto presto.
Un rumore ritmico e ipnotizzante sembra avvicinarsi sempre più per travolgermi e, in pochi secondi, mi sveglio di scatto con il fastidioso trillo della sveglia.
Corro in cucina a salutare mia mamma e le racconto dello strano sogno che ho fatto questa notte: ricapitolo brevemente i passaggi principali, il corridoio, le porte, il paesaggio, il fiume, Samanta e la collana. La collana. Infilo macchinalmente la mano in tasca: a contatto con la pelle, le maglie fini di una catenina e una liscia e fredda pietra triangolare mi fanno sobbalzare.