di Margherita Stagni
Cosa ci viene in mente quando pensiamo allo sbarco degli Alleati? Quello in Normandia, con scene da Salvate il Soldato Ryan, ideali di libertà e uguaglianza e la fine di un regime dispotico. Tendiamo sempre a dimenticare lo sbarco in Sicilia, avvenuto un anno prima del D-Day, ma non è colpa nostra: la vicenda sembra essere stata cancellata dalle pagine dei libri di storia, ridotta a poche righe che riportano l’incredibile rapidità e il successo dell’operazione. Peccato che la narrazione si fermi lì, a quei trentotto giorni, mentre, per capire veramente cosa sia accaduto, bisognerebbe scavare arrivando alle radici dell’operazione, comprendendo anche come ne siamo ancora oggi influenzati.
1924, il prefetto Cesare Mori, sostenuto dal governo fascista, inizia la sua opera di repressione, spesso violenta, volta ad estirpare la Mafia siciliana, guadagnandosi il soprannome di “prefetto di ferro”. Vengono intentate circa diecimila cause, che portano a diverse condanne e all’esilio di diversi mafiosi, i quali emigrano negli USA. L’opera di Mori ebbe anche un discreto successo, essendo riuscito a tirare dalla sua parte l’opinione pubblica, costringendo la manovalanza mafiosa, i delinquenti comuni, ad entrare in una sorta di letargo per evitare il linciaggio.
I problemi veri e propri iniziarono nel 1940, con l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, un organismo volto a migliorare le campagne siciliane grazie a fondi statali. I grandi latifondisti, ovvero i reali boss che tiravano le fila di Cosa Nostra, reagirono fondando il Movimento per l’Indipendenza Siciliana (MIS), guidato fra gli altri da don Calogero Vizzini, tornato dal periodo di confino impostogli proprio da Mori. Si può dire quindi che la Mafia non avesse in simpatia il regime fascista, e nutrisse tutti gli interessi per liberarsene.
Procedendo in parallelo, gli Stati Uniti avevano cominciato già dal ’39 a rifornire le forze nemiche dell’Asse, rendendo il porto di New York uno snodo strategico per gli Alleati. Consci dei rischi di sabotaggi da parte di spie tedesche o italo-americane, e in particolar modo dopo l’incendio, presumibilmente doloso, della SS Normandie, gli States corsero ai ripari. Inizia così l’operazione Underworld, che vede come protagonisti il maggiore Radcliffe Haffenden, Salvatore Lucania (conosciuto come Lucky Luciano) e il suo affiliato Joe Lanza. Luciano infatti, nonostante la carcerazione per sfruttamento della prostituzione, rimaneva a tutti gli effetti il boss della Mafia a New York, e grazie a lui gli americani riuscirono a neutralizzare le minacce derivate dalle operazioni di spionaggio italo-tedesche. Nel 1942 inizia quindi questa stretta collaborazione tra Mafia e USA, che avrà la sua rilevanza soprattutto nell’anno successivo.
Da questo momento in poi la faccenda si fa un po’ più annebbiata: sembra che durante l’organizzazione dell’operazione Husky (lo sbarco in Sicilia) Luciano abbia fatto i nomi di alcuni mafiosi che avrebbero aiutato gli americani, sia dal punto di vista logistico che militare. Alcune fonti, in particolare quelle americane, descrivono questa collaborazione come qualcosa di marginale, affermando che l’unico aiuto fornito dai mafiosi fu quello di inviare cartoline raffiguranti le coste siciliane per trovare il punto più adatto per l’approdo; altre invece, più verosimili visti gli antefatti, mostrano una totale collusione tra intelligence americana, Mafia, militari ostili al regime e MIS. Si ha l’entrata in scena di “illustri personaggi”, quali Vito Genovese, Salvatore Giuliano e Albert Anastasia. Oltre a fornire aiuto ai soldati americani, i mafiosi sbaragliarono letteralmente l’esercito italiano, minacciando i soldati e consigliando caldamente loro la diserzione, portando allo sgretolamento quasi istantaneo delle divisioni Assietta e Aosta.
La presa della Sicilia proseguì fino al 17 agosto, quando gli Alleati presero finalmente Messina. A quel punto si insediò l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories), incaricato come per gli altri territori occupati di amministrare provvisoriamente l’isola, e fu proprio grazie a questo ente che la Mafia in Sicilia riuscì a rialzare la testa. Sembra che, come ricompensa per i servigi resi durante il conflitto, diversi mafiosi siano stati nominati sindaci, garantendo il potere politico alla Mafia e allo stesso tempo il controllo capillare sul territorio agli Stati Uniti.
Si ipotizza, probabilmente a ragione, che da questa alleanza sia derivato negli anni un contratto tra politica e Mafia: la Sicilia, diventata dopo la guerra profondamente comunista, doveva essere soggiogata e portata a votare la DC, forza politica filo-atlantica e quindi ben vista dall’America. Nel corso degli anni però la Mafia si scrollò dalle spalle il peso dei “controllori” americani, e cominciò, come è risaputo, a risalire le cariche politiche attraverso la Democrazia Cristiana, infiltrandosi nelle cariche pubbliche e proseguendo con la cura dei suoi affari, godendo sempre di protezione.
Tenendo conto di questo, si può ipotizzare che l’attuale espansione della Mafia e la sua forza nell’essere radicalmente insediata nel tessuto sociale e politico del nostro paese derivino proprio da questo baratto: la sostituzione del fascismo con il regime mafioso, perpetrata attraverso ideali di democrazia e libertà.
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