di Sara Dominissini

I primissimi dati emersi durante le iniziali fasi della pandemia, malgrado gli innumerevoli aspetti del virus ancora poco conosciuti, hanno rivelato come  la donna  fosse più soggetta all’infezione e, nonostante ciò, l’uomo rimanesse il detentore del primato in termini di mortalità.

In parole “povere” la probabilità che le donne si infettino è più elevata, tuttavia ammalarsi di Covid comporta rischi maggiori se fai parte della popolazione maschile.

I ricercatori della Yale University hanno condotto uno studio, i cui risultati sono stati approfonditi in un articolo pubblicato su Science, che ha dimostrato come il rischio di decesso per Covid-19 è 1,7 volte superiore nella popolazione maschile in ogni fascia di età a partire dai 30 anni.

É evidente, quindi, sia come le differenze di genere abbiano un ruolo significativo nel decorso clinico, sia come la raccolta di dati disaggregati per sesso e genere sia essenziale. 

Giungere all’identificazione di terapie specifiche (e magari anche strategie preventive) presuppone inequivocabilmente la conoscenza della differenziazione in termini di incidenza e letalità, così da garantire l’efficienza e l’equità della risposta del sistema sanitario.

Partendo da questo presupposto, in veste di studentessa di un Liceo scientifico, non posso non pormi delle domande in merito al perché di queste differenze e, proprio per questo, mi è stata data la possibilità di partecipare ad un Webinar (“Gender Differences in COVID-19 Pandemic Around the World”, by the Italian Gender Medicine Network), che mi ha fornito le risposte necessarie.

In primo luogo va chiarito perché le donne siano più colpite dall’infezione; “Rispettano di meno le regole raccomandate dal governo per prevenire il contagio!”, si potrebbe pensare.

Uno studio condotto dall’Università Bocconi, pubblicato su Pnas, tuttavia, smentisce questa ipotesi: l’adesione delle donne alle raccomandazioni è nettamente più elevata, sia per un maggiore scrupolo nei confronti delle misure restrittive, sia per il livello percettivo di rischio più alto. 

Il maggiore numero di contagi femminili va ricondotto alle professioni che presentano una partecipazione prevalentemente femminile: infermiere, operatrici sanitarie, donne coinvolte nel campo della rianimazione e della medicina interna hanno lavorato di più sul campo nel periodo pandemico, esponendosi alla marcata diffusione dell’infezione nell’ambito sanitario.

Nonostante ciò gli uomini presentano un rischio di morte per Covid-19 superiore e tra gli innumerevoli comportamenti (sociali e individuali) e fattori che entrano in gioco nella realizzazione di questo sbilanciamento, un ruolo fondamentale lo interpretano delle interessanti componenti di tipo puramente biologico.

Il virus, infatti, attraversano le membrane delle cellule grazie all’aiuto di alcune strutture biochimiche. Queste ultime sono identificabili nel recettore “Ace2” e in una particolare proteina (dalla complicatissima denominazione, “Transmembrana proteasi serina 2”). La prima agisce provocando un effetto positivo perché, legando il virus, diventa una sorta di “uscio” e conducendo il virus verso l’interno consente la sua penetrazione nelle cellule e, successivamente, come se fosse una porta, chiudendosi impedisce l’ulteriore entrata del Covid. 

Al contrario la seconda proteina facilita in modo notevole l’ingresso totale, fungendo da fattore negativo. L’espressione dell’Ace2 è più spiccata nella popolazione femminile perché è codificata dal cromosoma X e ciò conferisce alle donne una maggiore protezione.

Inoltre, anche gli estrogeni concorrono a stimolare l’azione dell’enzima Ace2, incentivando la sua funzione di protezione in particolare nella sede polmonare. Ciò consente alle donne in età fertile, anche in seguito all’infezione, di essere dotate di un’espressione sufficiente di Ace2, così da far perdurare la condizione di protezione. Questo suggerisce che, in futuro, una possibile terapia per bloccare l’entrata del virus nell’organismo potrà essere basata proprio sull’azione estrogena.

La differente risposta vaccinale dei due generi, inoltre, si riconduce anche all’identità delle diverse risposte immunitarie che, verso gli antigeni virali, è più intensa nell’organismo femminile. 

In conclusione è possibile affermare che il Covid ha svantaggiato maggiormente gli uomini? In realtà no in quanto le statistiche e gli studi condotti, per esempio dal Parlamento Europeo, hanno palesato come durante il lockdown si sia verificata una drammatica escalation della violenza contro le donne, per le quali è più difficoltoso chiedere aiuto; ciò dimostra come, anche se in differenti maniere, sia uomini che donne sono stati danneggiati enormemente.

Inoltre la pandemia ha aumentato il rischio di disoccupazione e precarietà del lavoro delle donne in quanto molti degli ambienti dove si è verificato un notevole aumento delle perdite dei posti di lavoro è prettamente femminile.

Tra tutte le innumerevoli lezioni che questa epidemia ci sta insegnando, la più importante, forse, è che nessuno è immune al virus, nessuno viene risparmiato e la crisi la stiamo vivendo tutti, in maniere certamente diverse, ma nessuno è escluso.

Il Covid danneggia tutti senza fare distinzioni e, oltre a imparare a conoscere in che modo questo avvenga grazie alla scienza, dobbiamo iniziare a considerarci anche noi tutti alla pari, senza distinzioni, discriminazioni e disuguaglianze.

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