di Sara Dominissini

«Il mio Iran è un fuoco che covava sotto le ceneri. E le donne lo hanno acceso»
Shirin Ebadi

Ormai da metà settembre al telegiornale si susseguono immagini che ritraggono un Paese in fiamme e un popolo che incendia le strade con le sue grida di rabbia; per comprendere il perché di tutto questo non basta ascoltare frettolosamente qualche notizia rinvenuta qua e là, perché anche se i 4 mila chilometri che ci separano da Teheran ci appaiono sconfinati, il sordo rimbombo di quelle grida è arrivato fino a noi.
Ma cosa sta davvero accadendo in Iran e, soprattutto, perché proprio adesso?
In Italia la narrazione che viene proposta vede le proteste che sono divampate in tutto il Paese come una reazione alla morte di Mahsa Amini, tuttavia la brutale sorte alla quale la polizia morale iraniana ha condannato questa ragazza, “colpevole” di non essersi coperta correttamente con l’hijab, non è stata che una miccia.
In Iran esiste un proverbio che narra di un grande fuoco dormiente sotto alla cenere (“Il fuoco non si è spento, semplicemente dorme sotto la cenere”); le proteste sono la conseguenza di questo fuoco, che con l’assassinio di Mahsa è divampato ed è diventato implacabile.
Vivere in questo paese, ormai da decenni, è come resistere all’interno di una prigione, sottostando a un sistema che attraverso la soppressione della libertà soffoca chiunque tenti di farsi avanti e reclamare i propri diritti, o i diritti dei più emarginati, dei fragili, dei bambini, delle donne, di chiunque, di tutti. La risposta è la repressione violenta e il carcere, sempre.
Vi chiederete: perché prima di oggi non c’è mai stata una interruzione, un atto di rivolta contro questo sistema?
Di fatto i tentativi di ribellione sono stati considerevoli.
Nel 1999 all’Università di Teheran moltissimi studenti hanno levato la propria voce in nome della libertà di espressione. Moltissimi sono stati assassinati.
Nel 2009 un’altra ondata di proteste ha infiammato il Paese, ma il loro ruggito è stato soppresso con violenza e i manifestanti, per lo meno i superstiti, sono stati costretti al silenzio.
Nel 2019, con il deterioramento delle condizioni di vita, la popolazione ha creduto di nuovo nella speranza di un cambiamento e ha ritentato di sovvertire il sistema costituito; è stato un mese di sangue, così tragico da essere ricordato come Bloody November.
Non solo i manifestanti vennero decimati senza pietà, ma anche la pressione economica divenne insostenibile; approvvigionarsi per assicurare la sopravvivenza della propria famiglia fu un lusso, il prezzo di qualsiasi bene di prima necessità -come la benzina- crebbe vorticosamente e venne disabilitata qualsiasi connessione informatica. Così il regime massacrò la popolazione nell’inconsapevolezza – o quasi- di tutti, senza che le cicliche proteste che, come bombe, esplodevano in tutto il Paese, producessero un reale cambiamento.
Fatta chiarezza sulla situazione è spontaneo chiedersi se valga davvero la pena che gli iraniani lottino ancora rischiando la vita, ogni giorno, visto il drammatico epilogo delle proteste nel corso della storia.
La risposta è sì, perché vale sempre la pena lottare e soprattutto perché quest’ultima ondata di proteste è differente dalle precedenti. Questa volta è l’intero popolo ad essere sceso nelle strade, senza distinzione di genere, età e classe sociale; questa volta tutta la popolazione è graniticamente unita per reclamare i diritti di cui è stata privata.
Le piazze sono animate da cori di rabbia, lo slogan “Donna, Vita, Libertà” risuona nelle strade e rimbomba nel cielo, la folla è coesa, implacabile, ardente.
La loro voce è giunta fino a qui, nel nostro incantato Occidente, nel nostro privilegiato Occidente, che si fa portavoce di libertà e di ideali democratici, puntando il dito contro i regimi dittatoriali con le mani sporche di sangue, così diversi dai nostri sistemi politici. Quella del sentimento di superiorità dell’Occidente è una storia vecchia come il Mondo. Eppure questa superiorità ci ha condotto ad accettare, nella placida e passiva rassegnazione generale, ciò che per decenni ha piegato il popolo iraniano.
Una responsabilità internazionale c’è, in quanto, nonostante l’oscurantismo del regime, i leader politici sono sempre stati a conoscenza della tragedia che investiva questo popolo, ma hanno deciso di non denunciare, di non mobilitarsi, di non informare nemmeno i cittadini.
Il popolo iraniano ha dovuto attendere 44 lunghissimi e sanguinosi anni per vedere la propria voce oltrepassare i confini del Paese e acquistare credibilità.
Forse il dito dovremmo puntarlo verso noi stessi, perché il nostro silenzio e il nostro disinteresse ha contribuito a rendere possibili questi decenni di massacri.
Vorrei abitare in un Occidente che non alza le spalle quando accanto a lui una popolazione soccombe per elemosinare qualche diritto, senza assumere una posizione chiara e volitiva.
Ci riteniamo superiori, perché abbiamo fatto fiorire la civiltà a “casa nostra”, ma è davvero civile un Occidente che gira le spalle incurante mentre a 4mila chilometri dalla sua costa orientale si continuano a perpetrare sistematicamente delle carneficine quotidiane?
È davvero civile la nostra rappresentanza politica, che chiude gli occhi di fronte a questo sfacelo?
Non possiamo essere un Occidente civile se riusciamo a convivere con l’idea che i diritti non sono globali, perché un Mondo dove i diritti non sono di tutti è un mondo di privilegi.