di Camilla La Pietra e Alice Tomada
La luce può essere strumento di conoscenza. La luce è stata studiata, analizzata, ma nonostante ciò la sua potenzialità è comprensibile all’uomo solo in minima parte. Questa è l’entità che nel Medioevo ha dato origine ad una filosofia estremamente tangibile ma al contempo trascendente e spirituale, ovvero la metafisica della luce.
Ad aiutarci a capire l’importanza della luce, punto fondamentale della sopracitata filosofia, è intervenuto il professor Andrea Tabarroni, docente di Storia della filosofia medievale presso l’università di Udine nonché direttore della prestigiosa Scuola Superiore della nostra città, nel corso di una conferenza tenutasi nell’Aula Magna del nostro istituto.
La luce può essere una potente metafora. È da questo spunto di riflessione che il professor Tabarroni ha introdotto il concetto di “luce” in primis definita una realtà fisica, tangibile, che ha occupato uno spazio importante nell’ambito dello studio di illustri scienziati e letterati che, come potremmo fare ancora oggi noi, hanno intuito che questa entità può rappresentare uno strumento importante per spiegare una varietà consistente di fenomeni e immagini che oramai appartengono alla nostra conoscenza ed alla nostra memoria collettiva.
Molti sono stati coloro che, affascinati dalla bellezza e dalla potenza dei fenomeni luminosi, hanno cercato di coglierne l’essenza per capirne il meccanismo di funzionamento. Platone, uno dei padri della filosofia occidentale, osservando che la funzione fondamentale della luce consiste nel rendere la realtà visibile e quindi conoscibile, ha teorizzato la “visione della mente”, in cui il fenomeno luminoso è assimilabile all’idea del bene che illumina le altre idee e le rende a loro volta conoscibili all’intelletto umano.
Rivalutato successivamente da Aristotele, altra figura chiave (filosoficamente parlando) della cultura occidentale, il fenomeno luminoso diverrà oggetto di indagine scientifica, metodica strutturata anche in epoca romana ma il cui perfezionamento sarà compito di studiosi di epoche successive. Compiendo uno degli atti più banali e al contempo più significativi che l’uomo possa immaginare ovvero l’osservazione del cielo, il filosofo deciderà di soffermarsi su un fenomeno che ancora oggi risulta affascinante: l’arcobaleno. Aristotele, in accordo con un’ipotesi estromissiva, ipotizza che la nostra capacità di vedere sia frutto dell’interazione dei raggi visivi con l’oggetto che noi stiamo osservando e proprio questi, riflettendosi, creerebbero i colori.
Ma quali sono le condizioni che ci permettono di vedere? Lo Stagirita (appellativo di Aristotele nato a Stagira) avrebbe attribuito questa facoltà al medium, ovvero a ciò che si frappone fra il nostro occhio e l’oggetto, e la cui peculiarità deve essere la trasparenza, proprietà fondamentale per far sì che i raggi visivi arrivino a destinazione. Ma è luce in primo luogo ciò che ci permette di vedere e di comprendere; la luce è la causa della nostra vista e la ragione di molti altri fenomeni.
Per utilizzare la vista abbiamo banalmente bisogno dell’organo attraverso cui questa capacità si può esprimere, ovvero l’occhio, che sin dall’antichità è stato oggetto di studio e di indagine. La medicina si è concentrata in modo specifico sulle funzioni di questa parte del corpo, e parallelamente la geometria Euclidea ne ha studiato il potere che noi tutti esercitiamo correntemente: la vista. Tolomeo, astronomo e geografo dell’antica Grecia, definì e formalizzò le leggi dell’ottica, riconoscendo e circostanziando al loro interno anche due proprietà del fenomeno luminoso: la rifrazione e la riflessione. La luce è stata nel tempo, ovviamente, oggetto di studio della fisica e della meteorologia, ambiti alla quale essa è intrinsecamente legata.
Un contributo certamente fondamentale in termini filosofici alla concezione della luce e all’utilizzo della sua metafora è stata la dottrina che lo studioso e filosofo medioevale Roberto Grossatesta (1175?-1253), vescovo di Lincoln e fondatore insieme all’ordine francescano dell’università di Oxford, ha formulato nel corso della sua esistenza, fornendo ai posteri un importante strumento di elaborazione della realtà che trova il suo apice nella celebre Metafisica della Luce. Roberto Grossatesta era un ammiratore di Aristotele, tanto che sarà uno dei primi a tradurre e commentare parte della sua imponente produzione, e probabilmente proprio dalle opere dello Stagirita prenderà forma la sua metafisica della luce, la cui formulazione integrale è sintetizzata nell’opera “De Luce”.
È necessario anzitutto definire il concetto di metafisica, ossia quella parte dell’indagine filosofica che si occupa dell’essere (in questo caso dell’esistenza della luce) per capire come questa possa aiutarci a comprendere più chiaramente il mondo e la sua origine. In apertura della sua opera, Grossatesta cita un passo ampiamente conosciuto del libro della Genesi, ovvero “Sia la luce. E la luce fu”. Sulla base di questo incipit la luce viene definita utilizzando un termine aristotelico, cioè la forma che per ogni corpo corrisponde ad un’intrinseca caratterizzazione della materia, che invece rappresenta la fisicità dei fenomeni. Questa prima caratterizzazione, anche detta più specificatamente forma prima perché è la prima proprietà di ogni entità, ha la caratteristica di essere automoltiplicativa, cioè di riuscire a propagarsi in qualunque direzione senza alcun limite, esattamente come fa non solo la luce fisica nella nostra quotidianità ma anche ogni processo ondulatorio.
La luce però è imprescindibilmente legata alla materia, tanto che l’unione della prima forma e della materia stessa viene detta corporeità, e questa definizione permette alla materia di acquisire buona parte della qualità di automoltiplicarsi della luce, garantendo alla fisicità un’estensione spaziale nelle tre dimensioni utilizzando la forma come mezzo di propagazione. Dalla possibilità di un’illimitata diffusione nello spazio peculiare della prima forma l’introduzione della materia e conseguentemente della corporeità sancisce un limite di questa infinità: la luce, applicata alla fisicità, rimane illimitata nella potenzialità dell’estensione in proporzione alla presenza della materia stessa. Si introduce quindi la relatività del concetto di infinito, che può assumere un’importanza diversa a seconda della corporeità che viene considerata.
Avendo chiarito ai lettori quale peculiare significato venga attribuito alla “luce” citata nel versetto della Genesi, identificata da Grossatesta anche come “lux”, egli introduce il tema della Cosmogonia, ovvero della creazione del nostro cosmo: l’origine di questa creazione viene fatta corrispondere ad un punto di luce al centro dello spazio da cui si irradia la materia prima legata alla lux, forza creatrice, che istantaneamente genera un’immensa sfera luminosa. Sviluppandosi verso l’esterno, dopo una prima propagazione, la corporeità raggiunge il limite massimo di estensione della materia definito come una “zona di massima rarefazione” che corrisponde alla sua massima possibilità di espansione. Grazie a questa caratteristica si origina il “primo corpo”, proprio al limite estremo dell’espansione luminosa. Il primo corpo, caratterizzato dall’unione di materia prima e forma prima, era già stato identificato da Aristotele come il meno strutturato dei cieli, ovvero il firmamento, che secondo lo Stagirita imprime il movimento al resto del cosmo creando ex abrupto anche il tempo. Dal primo corpo, in base a quanto ipotizzato da Grossatesta, viene generata una seconda forza creatrice, automoltiplicativa, che però difetta in parte di quella perfezione che caratterizzava la “lux”; tale entità viene chiamata “lumen”, definibile come una “lux depotenziata”, la quale corrisponde anche alla nostra stessa luce fisica percepita come strumento di conoscenza degli oggetti. Dalla formazione del primo corpo, il lumen compie un moto retrogrado dal confine del cosmo verso il suo stesso punto di origine: un movimento a ritroso che permette al lumen di continuare la creazione, su modello di quella della lux, delle altre nove sfere celesti. Procedendo con la retro-espansione centripeta, il lumen raggiunge inevitabilmente dei limiti derivati dalla stessa creazione che la rendono una forza via via più imperfetta, capace di generare corpi sempre meno riconducibili alla realtà del firmamento. Questa luce depotenziata nel suo moto dà origine alle nove sfere (riferimento implicito ai 9 cieli aristotelici); nella nona sfera è situato il nostro pianeta, la terra. Il globo terrestre si configura come una zona di aggregazione dei quattro elementi (aria, acqua, fuoco e terra) nella quale la luce secondaria non ha completato la separazione degli stessi che rimangono ancora mescolati tra di loro, così come era stato ipotizzato dalla primissima filosofia greca.
Affascinante ed al contempo complessa, dotata di una velatura di misticismo, la teoria di Grossatesta ispirerà l’opera di molti intellettuali in diversi ambiti. Per tutti l’elemento intrigante sarà la possibilità di utilizzare la luce come strumento versatile e strategico per elaborare la nostra realtà: la luce è parte fondamentale della nostra esistenza e se osserviamo bene il mondo che ci circonda, troveremo in lei un importante spunto di riflessione sulla quotidianità, perfino su quella più ordinaria. La luce è un’opportunità di distogliere l’attenzione dalla frenesia delle urgenze per rivolgere il nostro sguardo verso l’infinito, l’ignoto, o meglio il futuro; è un’occasione preziosa per metterci in relazione con l’immensa capacità immaginifica del nostro stesso pensiero.
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