di Lisa Pinto

Cala la notte e come un velo avvolge morbidamente la città. Le vie brulicanti di giorno lasciano spazio ad un silenzio interrotto solo dallo scalpiccio di pochi passanti avvolti in ingombranti sciarpe e lunghi cappotti. Rapidamente, uno dopo l’altro, i lampioni si accendono per le strade rischiarando le file di panchine allineate lungo i marciapiedi. Tra le finestre illuminate delle palazzine appaiono i profili di persone che leggono, conversano o cenano in compagnia. Tutti sembrano rintanati nelle proprie case accoglienti, davanti ad una tazza di té o ad una vecchia pellicola. Tutti tranne i malinconici. Questi soggetti, più sagome che persone, passeggiano sfidando le gelide folate di vento, per poi sostare pensierosi su una delle numerose sedute sparse per la città. Lì si dedicano ai ricordi più nostalgici, all’analisi delle proprie sventure e all’apprensione per un futuro per nulla promettente.
Lasciando i rassegnati a rimuginare sulle scelte di vita non intraprese, si può spostare l’attenzione sul loro luogo prediletto per le riflessioni notturne: una specifica panchina, posta proprio sotto al lampione più luminoso della città. La sommità di questo faro cittadino è abitazione e laboratorio di una minuscola creatura. Se si fosse abbastanza piccoli da entrarvi, vi si troverebbe un’attrezzata merceria: fili, bottoni, scampoli di tessuto, toppe, perline, aghi e uncinetti minuziosamente organizzati in cassetti e armadietti.
Ogni notte la piccola artigiana applica la sua arte. Con trepidazione attende che un angosciato cittadino si lasci scivolare sulla sua panca per articolare i suoi pensieri e, proprio quando la disperazione tocca il culmine, entra in azione. Scivola volteggiando giù dal suo nascondiglio e si introduce tra le riflessioni dell’infelice. Avanza nel groviglio analizzando la matassa, dalle tasche sfila il necessario e si mette al lavoro. Con cautela cerca un capo del pensiero e lo avvolge in un fiocco intorno alla vita. Procede ad arrotolare il nastro, finché non si imbatte in un nodo e, con pazienza e delicatezza, districa l’intreccio allentando o tendendo i fili. Prosegue con risolutezza fino a stringere tra le mani esili un gomitolo ordinato e regolare. A complicare la missione è la presenza di più colori: relazioni insoddisfacenti, lavoro non appagante, vita insignificante sono solo alcune delle tinte in cui si imbatte l’artista. Certi giorni trascorre persino delle ore a sciogliere nodi ingestibili e, proprio quando vorrebbe mollare tutto, o tagliare qualche ricordo che la ostacola, ecco che riesce a trovare il bandolo della matassa e a proseguire più motivata di prima.
Una volta ottenuti diversi batuffoli colorati, l’artigiana si ferma per un istante. Abbandonarli così sarebbe poco cauto: al primo brivido dell’animo tornerebbero a mescolarsi tra loro e, nelle mani di un dilettante, non ci sarebbe più modo di recuperare i pensieri. Giunge il momento più affascinante del processo creativo: con un uncinetto inizia a comporre una tela sempre unica. In una danza di anelli, catenelle, maglie alte e basse, una fantasia inizia a scorgersi sul progetto, che però resta sempre vago. È riconoscibile una traccia, un percorso delineato e alcuni punti esaltati da perline che scintillano, ma manca ancora qualcosa, un senso generale, una chiave di volta che sconvolga la semplicità fin troppo precisa e regolare. Qualcosa che non può inventare o completare la piccola creativa, perché è compito del proprietario dei pensieri decidere come servirsi della sua opera. Il suo lavoro è completato e, con la stessa agilità con cui si è insinuata nelle ombre dei ricordi, ritorna nel laboratorio soddisfatta.
Contemporaneamente un luccichio compare negli occhi dello scoraggiato cittadino. Ha trovato la risposta ai suoi grattacapi che, in fondo, era sempre stata davanti ai suoi occhi. Si alza di scatto e con una fiducia nuova si avvia verso il suo domani.
L’ennesimo successo della tessitrice di speranza.