di Alessia Turchetti
No.
“Vuoi un po’ di acqua? C’è dello zenzero e del limone all’interno, è depurativa, molto dissetante…” e altri aggettivi che facevano intendere gli effetti benefici di quella bevanda, i quali presagivano anche il disgusto garantito che si prova ogni volta ingerendo quelle cose integralmente naturali. Accettai accennando un sorriso. Alla domanda “ti piace?” risposi “sì!” e per dare ulteriore segno di convinzione ne bevvi un altro sorso. Un progetto di inglese mi aveva costretta lì dentro, a bere acqua e zenzero a casa della secchiona della classe. Uno di quei momenti della vita che difficilmente si scordano, sì. Continuavo a visualizzare l’immagine di un calzino sudato spremuto dentro la brocca appena prima che io citofonassi. Non trovavo altro paragone in grado di descrivere quel sapore.
Eppure sentii la necessità di dire che quella roba mi era piaciuta. Non per educazione, no. Potevo sentirmi libera di dirle che faceva schifo, me l’aveva detto lei. Ma io non lo feci. Volevo dimostrare di essere come lei, un po’ sofisticata, raffinata, una vera dura. Bere acqua con lo zenzero: questo fanno i veri duri.
Reprimere se stessi per sentirsi accettati. Da chi? Da altri individui che reprimono se stessi per sentirsi accettati. È come bere acqua allo zenzero per sentirsi accettati da chi beve acqua allo zenzero per sentirsi accettato da colui che gli ha dato l’idea (probabilmente un guru della dieta in sette giorni). Se fossi Dio mi piacerebbe guardare il mondo dall’alto, e, con aria di superiorità, accusare gli esseri umani di essere esseri idioti.
Ogni volta in cui ci troviamo in un contesto sociale che non ci appartiene, più elevato rispetto al nostro in questa piramide invisibile che ha sempre classificato gli uomini per il loro portafoglio, tendiamo a comportarci in modo innaturale per non sentirci gente rozza. Comportamento privo di senso se le lezioni di italiano sono servite a qualcosa e se ricordiamo l’attenzione che aveva Guinizzelli nel sottolineare la differenza tra nobiltà sociale e nobiltà d’animo. Guinizzelli aveva ragione? L’Ivan Il’ič di Tolstoj avrebbe detto di no, freddamente. Desiderava vivere una vita decorosa, fatta di decenza e piacevolezza: una vita nobile. Ed era questo il segreto dell’esistenza. Stava qui la felicità, credeva… non se l’era mai chiesto davvero. Doveva essere così e basta. Lui era un uomo razionale, freddo, impermeabile a tutte le questioni sentimentali. Il suo unico obiettivo nella vita era lavorare, e farlo bene. Elevare il proprio ruolo e così aumentare il profitto. Dimostrare a se stesso che ne era capace, ma soprattutto dimostrare agli altri di esserlo. Ivan Il’ič si ammala, è giovane. Sta morendo. Sta morendo? Fatica a crederci. Il dolore lo tormenta, lo corrode lentamente, lo immobilizza. Mano a mano che la morte si avvicina, però, il dolore fisico passa in secondo piano, preceduto da un dolore molto più lancinante, tormentoso, straziante. Un dolore che non si vede: una sofferenza morale. Ivan Il’ič si domanda se ha vissuto la propria vita in modo degno. In modo giusto. Sì, per forza. Non può essere altrimenti, deve essere necessariamente così. Si domanda se in tutti quegli anni ha vissuto facendo del bene, o se ha vissuto e basta. Non può accettare di non aver vissuto come si deve. Ha sempre mantenuto uno stile di vita formale e operoso, e non si è sottratto ai momenti di svago e piacevolezza, anch’essi di un certo decoro. Tutto questo era vita nobile, vita degna d’essere chiamata vita. Stava qui la felicità, credeva… non se l’era mai chiesto davvero. Eppure, al culmine della malattia, incentivato dall’enorme quantità di tempo libero che, inevitabilmente, lo portava a riflettere a lungo, a pochi giorni dalla morte “gli venne in mente ciò che fino ad allora gli era parsa una totale assurdità, quella di aver vissuto la vita in modo sbagliato. Vide che questa poteva essere la Verità. Gli venne in mente che i suoi timidissimi tentativi di ribellione contro ciò che la gente dell’alta società considerava buono, tentativi appena abbozzati, ch’egli si era sempre affrettato a reprimere, potevano essere quelli autentici, e tutto il resto, errore.”
Anche noi termineremo la nostra esistenza chiedendoci chi siamo davvero, cercando una risposta in un buio ancora più pesto di quello che c’era durante l’infanzia, perché abbiamo scelto di eliminare tutto ciò che ci rendeva ciò che eravamo, tutto ciò che poteva darci una risposta, anche se incerta, dubbiosa, o parziale. Ognuno di noi diventerà il protagonista de “La morte di Ivan Il’ič” di Lev Tolstoj. Che cosa fare per evitarlo? Leggere uno di quei manuali sui dieci segreti per vivere al meglio? Non so. O forse mantenersi vivi. Seguire quella cosa che sentiamo dentro di noi, che sia anima, sogno, istinto, o passione, senza reprimerla per il giudizio esterno. Cercare una propria identità. Non annullarsi per l’accettazione altrui, che in fin di vita non ci sarà stato utile. Obiettivo irrealizzabile, o perlomeno solo parzialmente possibile, ma per ora impariamo ad ammettere che l’acqua allo zenzero non fa per tutti!
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