di Lorenzo Altomare
Il 13 settembre del 2022, all’età di 91 anni, Jean-Luc Godard è ricorso al suicidio assistito nella sua casa a Rolle, in Svizzera. Tra i più importanti registi del Novecento, nacque a Parigi nel 1930 in una famiglia dell’alta borghesia e si accostò al cinema già dalla fine degli anni Quaranta, frequentando la Cinémathèque e i cineclub parigini insieme a un gruppo di amici che andrà poi a costituire il nucleo originario della futura Nouvelle Vague.
Questo movimento cinematografico raggruppava tutta quella nuova generazione di registi che, in contrapposizione ai film francesi del periodo, dai toni moralistici e totalmente distaccati dalla realtà quotidiana, esigevano un cinema in grado di rispecchiare fedelmente i nuovi modi di vivere e le nuove idee dei francesi. Un concetto centrale nelle riflessioni degli intellettuali della Nouvelle Vague è quello di “Politica degli autori”, l’idea secondo la quale un film non coincide mai con la sua sceneggiatura o con i suoi autori, bensì con l’uomo che l’ha girato. Il regista è dunque capace di comunicare con lo spettatore non solo attraverso la trama ma anche con determinate scelte stilistiche che permettono di rendere riconoscibile, sin dai primi fotogrammi di una pellicola, il suo autore, attuando una personalizzazione del cinema: il film non è più un mezzo di intrattenimento universale ma un’esperienza personale del regista in cui non ci si accontenta di registrare unicamente la vita come trascorre davanti alla macchina da presa, ma si cerca di catturare la vera anima delle cose.
Di grande ispirazione per questa nuova generazione di registi fu l’esperienza del neorealismo italiano e, in particolare, i film di Roberto Rossellini, uno dei cineasti preferiti da Godard. I registi della Nouvelle Vague furono gli sperimentatori di un nuovo cinema che portava la macchina da presa fuori dagli studi cinematografici per confrontarsi con la vita reale, girando con mezzi di fortuna per le strade parigine o negli appartamenti degli stessi registi con attori poco noti, se non addirittura amici del regista. Come scrisse Godard nel suo periodo da critico per i “Cahiers du Cinéma”, la più autorevole rivista di cinema di quegli anni, l’obiettivo cinematografico di questa nuova generazione di registi era di riuscire a catturare “lo splendore vero” della realtà, di cui il cinema è “uno sguardo a ogni istante talmente nuovo sulle cose, da trafiggere”. A tale scopo era necessario eliminare qualsiasi cosa che potesse compromettere la realtà, come i proiettori o le scenografie: i film sono girati alla luce naturale del giorno e le riprese sono effettuate con una camera a mano, accompagnati da una troupe tecnica essenziale. Il modo di girare di Godard era basato sulla rapidità e su sceneggiature che, come nei film di Roberto Rossellini, erano appena abbozzate e lasciavano così il primato alla ripresa e alle abilità attoriali dei protagonisti.
Grazie alla collaborazione con Francois Truffaut, Godard girerà nel 1959 il suo primo lungometraggio, Fino all’ultimo respiro, considerato unanimemente il manifesto della Nouvelle Vague. Girato in sole quattro settimane con un budget limitato, mezzi di fortuna e pellicola fotografica (più sensibile di quella cinematografica per poter compensare un’illuminazione inesistente), il film è un racconto di un giovane delinquente, Michel, interpretato da Jean-Paul Belmondo, che con il suo atteggiamento rispecchia il linguaggio frammentario e discontinuo del film oltre al disprezzo delle regole registiche: il montaggio è sconnesso, gli attori si rivolgono direttamente al pubblico e frequenti sono gli sguardi in macchina. Il protagonista ricalca perfettamente la figura dell’antieroe esistenzialista, come si può comprendere dalla sequenza più lunga del film, quella del dialogo di ventidue minuti tra Michel e Patricia. Alla domanda di lei su cosa sceglierebbe tra il dolore e il nulla lui, dopo aver inutilmente cercato di sviare l’attenzione, risponde che “Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente.” Aut aut: la scelta è la dimensione fondamentale dell’esistenza e, tra la rosa di possibilità che si aprono davanti al singolo, le opzioni sono tra loro alternative incompatibili e inconciliabili. E il nulla è una scelta molto più radicale del dolore e Michel stesso, come dimostra nella sequenza finale del film decidendo di non scappare dalla polizia, abbraccia l’idea nichilista che la vita sia un nulla.
Altra opera centrale nella produzione del regista è Questa è la mia vita del 1962, film composto da 12 episodi non legati tra di loro e introdotti da una didascalia su fondo nero in cui vengono presentati i personaggi e il luogo degli eventi. È un film di frammenti, di “una serie di schizzi” isolati e sconnessi tra loro, che ci permette di osservare la storia “senza guardarla troppo a lungo, perché se no si finisce col non capire nulla” (come ci ricorda in un’intervista lo stesso Godard) e in cui l’onere di interpretare parole e immagini è affidata allo spettatore che, nel cercare un nuovo senso della narrazione, dà una propria e personale chiave di lettura della storia. Tutti i protagonisti dei film di Godard sono condannati sin dalle prime sequenze ad un tragico epilogo ( “La vita non è che una lunga morte” afferma Nietzsche ne La gaia scienza), una morte che “compie un fulmineo montaggio della nostra vita” come quando, al termine della visione del film, lo spettatore raccoglie i frammenti della storia riassemblandoli in un’unità organica e dotata di senso. La protagonista dell’opera è Nanà (interpretata dall’allora moglie di Godard Anna Karina), una ragazza ventiduenne appena separata dal marito che, non riuscendo a guadagnare abbastanza da vivere come commessa in un negozio di dischi parigino, inizia a prostituirsi.
Il frammento più significativo è il penultimo dei 12, nel quale Nanà inizia una conversazione in un bar con uno sconosciuto, il filosofo Brice Parain, che verte attorno alla natura del linguaggio e della parola. Parain sostiene che “non si possa vivere senza parlare” perché per pensare o comunicare è necessario poter parlare: è attraverso il linguaggio che passa il rapporto tra noi e il mondo. Come afferma Wittgenstein nel suo Tractatus, “5.6 I limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo” oltre ai quali giace l’inesprimibile, tutto ciò che risiede oltre le parole e rimane incomunicabile. Ma le parole, come controbattuto da Nanà, sono una distorsione della realtà. Per Godard tutte le parole sono bugie e solo le cose incomunicabili, in quanto non comunicate, trasmettono la loro purezza, la loro segretezza. Le cose che non abbiamo mai voluto o potuto dire sono, per la loro stessa essenza, ciò che più si allontani dalla distorsione della parola e le più sincere che avremmo mai potuto comunicare. L’incomunicabile, non venendo mai espresso, è eterno, non come le parole che periscono una volta dette, ma rimane nella sfera del non-detto, del pensato e dell’immaginato, e in ciò risiede la maggiore autenticità dei gesti, degli sguardi, dei pensieri. “Parlare è quasi una resurrezione rispetto alla vita, nel senso che, quando si parla, si ha un’altra vita rispetto a quando non si parla. E allora, per vivere parlando, bisogna essere passati dalla morte della vita senza parlare” afferma Parain. Risulta allora necessario rintracciare nella filmografia di Godard, per una più lucida analisi del suo pensiero e del suo fare arte attraverso il cinema, ciò che non è detto, la verità che sottende le parole dette. Nei movimenti di camera, negli sguardi degli attori, nei silenzi e nelle inquadrature dei film. Perché è necessario “passare per l’errore per arrivare alla verità”. E se la fotografia è la verità, allora il cinema, come tecnica, non può che essere “la verità 24 fotogrammi al secondo”.
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