di Riccardo Sidoti (redazione)
In questo periodo fuori dall’ordinario ognuno ha vissuto una forte compressione delle proprie libertà. Le Autorità pubbliche hanno agito secondo la legge? Cosa prevede la nostra Carta fondamentale in questi casi? Il prof. Francesco Bilotta, del Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Udine, ne ha parlato con la redazione dell’Intrepido.
Cosa stabilisce il diritto costituzionale italiano in merito alla gestione di queste emergenze?
Innanzitutto devo fare una premessa, spesso – e ancor di più in questo periodo – si sente parlare del diritto come una sorta di “bacchetta magica” risolutrice di tutti i problemi, fonte di certezze. Non è così: tutte le norme, a partire dalla Costituzione, sono frutto della storia e quindi anch’esse sono “umane”, con dei difetti e delle lacune.
Nel secondo dopoguerra, la principale preoccupazione delle madri e dei padri costituenti era di scrivere un testo che scongiurasse il ritorno di guerre e dittatura, non avevano pensato all’avvento di un’emergenza epidemiologica di queste dimensioni.
Possiamo quindi dire che neanche la Costituzione era pronta ad affrontare questa pandemia che ha preso tutti alla sprovvista.
Qualcuno potrebbe obiettare a questa affermazione citando il primo periodo dell’articolo 16, che prevede limitazioni alla libera circolazione per motivi di “sanità o di sicurezza”, o il primo comma dell’articolo 32 che indica la “tutela della salute” come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Ma non è ciò che intendevo io, non bastano degli accenni per dire che un testo costituzionale è pronto per affrontare un evento. Richiamando quanto ho detto prima, faccio notare che la nostra Carta fondamentale fissa una serie di norme per impedire derive simili a quella fascista, non solo quando enuncia i diritti fondamentali o le disposizioni finali: ogni articolo, in modo implicito, disegna una società e uno Stato di diritto che difendono la libertà e la democrazia, anche in situazioni pericolose sul piano politico e sociale, ma non sanitario.
Bisogna quindi mettersi il cuore in pace ed evitare di arrampicarsi sugli specchi: l’emergenza ha costretto a forzare i confini costituzionali. Ciò era accettabile, anche se attuato in modo poco ortodosso, in un primo periodo, vista l’urgenza, ma poi con il passare dei mesi, fino a oggi, alcune Autorità stanno portando avanti una serie di atti che dal punto di vista sostanziale, procedurale e formale sollevano – almeno a mio parere – dei dubbi sul piano legale.
Ci spieghi meglio che cosa intende, quali sono stati gli errori compiuti nell’iter normativo? Dove, secondo lei, si sarebbe potuto fare meglio in tal senso?
Anche qui devo fare una breve introduzione al mio discorso, che consiste in uno schematico riassunto di quella che è la gerarchia delle fonti del diritto nel nostro paese (per semplificare non consideriamo il ruolo dei trattati internazionali e della legislazione comunitaria).
In cima alla “piramide” sappiamo esserci la Costituzione. Al secondo posto ci sono gli atti aventi forza di legge. Sono di tre tipi: il primo è la legge ordinaria approvata dal Parlamento. Poi ci sono i decreti legislativi, elaborati dal governo come attuativi di deleghe a esso conferite dal parlamento tramite legge ordinaria (art. 76 Costituzione). Infine, “in casi straordinari di necessità e urgenza”, il Governo può adottare dei decreti-legge (art.77, comma 2) che vanno presentati il giorno stesso della loro approvazione alle camere parlamentari per la conversione in legge. Se questa non avviene entro sessanta giorni, il testo normativo perde completamente di valore.
Nell’ultimo gradino della gerarchia rientrano una serie molto variegata di atti, chiamati “amministrativi” o “regolamenti”. Essi sono di competenza del potere esecutivo, sono quindi adottati dai ministri, dai dirigenti statali (centrali o periferici) e dai governi degli enti locali (es. sindaci o presidenti di regione). L’ormai celebre DPCM, sigla di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, rientra in quest’ultima categoria.
La Costituzione, in alcuni suoi punti, prevede delle limitazioni alle libertà e garanzie da essa stabilite, a patto che queste siano stabilite per legge e non con atto amministrativo. A partire da ciò, in molti hanno criticato l’uso del DPCM per stabilire le misure di contenimento e gestione dell’emergenza Covid-19. A mio parere, però, non è questa l’aspetto maggiormente problematico, infatti gli atti del Presidente del Consiglio hanno di volta in volta trovato base in appositi decreti-legge (il primo adottato a fine febbraio 2020).
La questione di costituzionalità riguarda il reiterato utilizzo di questo strumento legislativo da parte del Governo. Ciò fa in modo che, mentre un decreto legge è in conversione nel Parlamento, il governo ne approvi un altro simile o comunque sullo stesso tema, forzando quindi il limite dei sessanta giorni posto dalla Costituzione per proteggere le competenze del ramo legislativo.
Contro tale pratica si è espressa in passato la Corte costituzionale, cosa che però non ha potuto fare in questo periodo, perché tale organo agisce solo su impulso esterno, che oltretutto non può nemmeno venire da un semplice cittadino, poiché noi abbiamo un sistema di controllo costituzionale centralizzato, il che significa che solo i giudici ordinari possono rivolgersi alla cosiddetta “Consulta”.
Sempre in ambito giudiziario, un altro grosso problema nell’ambito delle garanzie costituzionali, è stato rappresentato da una parziale sospensione delle attività dei Tribunali, che ha aumentato la difficoltà dei cittadini di poter far valere i propri diritti.
Le Regioni invece come si sono comportate?
Penso che la proliferazione di ordinanze dei presidenti di regione (faccio notare che il termine “governatore” è solo giornalistico, non è riportato in nessun testo di legge) sia dovuta prima di tutto a necessità politiche. In situazioni così fuori dall’ordinario e caratterizzate da incertezza, è importante per il politico, che ha incarichi di governo locale, dare la percezione ai propri cittadini di essere presente e soprattutto attivo.
Per fare ciò, si è sfruttato un fraintendimento del significato della parola sanità pubblica che è erroneamente stata fatta coincidere con salute pubblica.
La prima riguarda tutti i servizi sanitari (ospedali, aziende sanitarie locali ecc…), e – sul piano costituzionale – è l’unica delle due effettivamente di competenza regionale.
Parliamo ora di scuola. È giusto che gli insegnanti siano stati obbligati a proseguire la loro attività con la didattica a distanza? È legittimo che alcuni di essi si rifiutino di svolgere il proprio lavoro con modalità perché non previsto dal contratto?
Premetto due cose: primo, non sono un giuslavorista esperto, secondo, ripeto che nei primi giorni di emergenza gli atti sono stati comprensibilmente poco ortodossi nella forma e nella sostanza ed è quindi difficile dire se gli obblighi fossero del tutto legali. Detto ciò, il dovere di proseguire la didattica in modalità a distanza è stato portato a livello di legge con un decreto-legge di inzio aprile (ndr.: DL numero 22 del 8 aprile 2020, convertito con la legge n.6 del 6 giugno 2020). Non penso sia sbagliato che ciò sia avvenuto con un atto unilaterale del governo e non con un accordo sindacale, poiché non si trattava di sperimentare nuovi metodi educativi, ma di garantire il diritto all’istruzione degli studenti, chiaramente stabilito dagli articoli 33 e 34 della Costituzione.
Se fossi un Dirigente scolastico, di fronte a un rifiuto totale da parte di un docente di svolgere tale prestazione professionale a distanza, avrei dato impulso a un procedimento disciplinare.
Penso però che nella maggior parte dei casi non sia avvenuto ciò. Semplicemente molti docenti (me compreso) hanno voluto mettere dei “paletti” per evitare che il cosiddetto smart working volesse dire lavoro ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette. C’è un “diritto alla disconnessione” da parte di tutti. Esso, nonostante possa essere chiaramente dedotto dai principi del nostro ordinamento e dalla giurisprudenza e dottrina (termini che indicano, rispettivamente, l’insieme di sentenze e il dibattito accademico) in materia, non è formalizzato con apposite leggi. Questa potrebbe essere l’occasione di aprire un dibattito in tal senso. Il fatto che questa terribile pandemia di SARS-CoV-2 ci abbia colpiti duramente, non significa che non possa dare degli spunti di riflessione positivi, a partire dal mondo della politica e del diritto.
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