di Margherita Stagni

Lo sappiamo tutti ormai, i periodi di difficoltà fanno sorgere l’uomo forte, che prende il comando e guida il popolo fuori dal tunnel, o almeno si spera. È successo nell’Antica Grecia, con Hitler e Mussolini lo scorso secolo, e succede ancora oggi. Il processo è quasi naturale: dalla paura e dal senso di impotenza dell’individuo nasce la necessità di un’autorità che sappia rispondere rapidamente alle emergenze. Possiamo quindi dire che la pandemia di SARS-CoV-2 sia una manna dal cielo per aspiranti autocrati, che aspettano solo l’occasione propizia per raccogliere nelle proprie mani i pieni poteri dello stato che governano.
È il caso di Viktor Orbán, a cui, dopo 10 anni di governo, sono stati conferiti poteri speciali dal parlamento ungherese il 30 marzo 2020. Il primo ministro ora ha il potere di legiferare per decreto, senza quindi passare per il Parlamento, fino al decorrere dello stato di emergenza, che però ad oggi non ha ancora una data di scadenza. Inoltre, il parlamento è sospeso senza elezioni e, nel caso di diffusione di fake news sul coronavirus, i giornalisti potranno essere incarcerati. Ma come può essere possibile che il parlamento di uno stato democratico, membro dell’Unione Europea, abbia conferito un ordinamento che si potrebbe definire dittatoriale alla propria nazione? Per darsi una risposta bisogna andare indietro nel tempo, fino al 1993, e capire come un singolo uomo sia riuscito a diventare leader incontrastato di un partito e di una nazione, grazie ad abilità politiche e a una buona dose di fortuna.
A 30 anni Orbán è diventato leader della Fidesz (Federazione dei Giovani Democratici), in un momento critico per il suo partito: alle elezioni parlamentari del 1990 ha ottenuto l’8.8% dei voti, mentre nel ’94 il 7%. Prese in mano le redini del partito nel 1993, Orbán si lancia in un’alleanza con forze di centro-destra, formando una coalizione che avrebbe vinto le successive elezioni. Dal 1998 al 2002 l’Ungheria assiste a un periodo di aperture verso l’estero, con l’adesione alla NATO, l’inizio dei negoziati per l’entrata nell’UE e misure atte a favorire il libero mercato. Alla fine del suo primo mandato Orbán non viene rieletto, data la vittoria del Partito Socialista Ungherese, e la sua popolarità subisce un calo drastico: si arriva persino a chiedere le sue dimissioni dalla carica di presidente del partito. Grazie a uno scandalo politico, che scaturirà in una rivolta popolare, la Fidesz riacquista consenso, vincendo le europee del 2009 e ottenendo due terzi dei seggi in parlamento l’anno successivo. Forte di questa amplissima maggioranza, Orbán porta avanti una serie di riforme che culminano nell’adozione di una nuova costituzione fortemente anti-liberale. Tra i punti salienti troviamo la limitazione della libertà di espressione, il divieto di condurre dibattiti politici su emittenti private, l’esautorazione della Corte Costituzionale, che può rivedere esclusivamente la forma, e non i contenuti, delle riforme, il confinamento dei laureati in Ungheria per un periodo pari alla durata dei loro studi (fino a 10 anni) senza la possibilità di cercare lavoro all’estero, pena il risarcimento dei costi dell’istruzione pubblica, l’impossibilità per qualsiasi coppia omosessuale, senza figli o non sposata di essere riconosciuta come “famiglia”.
Nonostante le critiche dall’opposizione e dall’estero, Orbán viene nuovamente eletto nel 2014. Comincia così l’età sovranista dell’Ungheria, con provvedimenti che mettono al bando le ONG che operano con i migranti, la costruzione di un muro di filo spinato sul confine serbo e la strenua opposizione alla redistribuzione dei migranti su tutto il territorio europeo. Alle ultime elezioni, nel 2018, Orbán si è presentato come protettore dell’Ungheria e dell’Europa cristiana, contro l’opposizione, l’UE, Soros e l’ONU, responsabili secondo lui di voler trasformare l’Ungheria in una nazione per immigrati. La coalizione Fidesz-KDPN (cristiano democratici) ottiene il 49% dei voti, 3% in più rispetto alle precedenti elezioni, dando vita al quarto governo Orbán.
D’altro canto le critiche dall’estero, provenienti anche dal Partito Popolare Europeo, di cui Fidesz fa parte, si sono inasprite. Nel settembre 2018 il Parlamento Europeo ha approvato la possibilità di usare l’articolo 7 contro l’Ungheria, ovvero un pacchetto di sanzioni tra cui la sospensione del diritto al voto nel Consiglio Europeo. Per quanto questa evenienza possa sembrare minacciosa, il governo ungherese non è mai stato realmente a rischio, dato che per attuare il provvedimento è richiesta l’unanimità del Consiglio, e la Polonia, che sta attuando misure anti-immigrazione molto simili, è riluttante a dare il proprio consenso.
Dopo la schiacciante vittoria alle elezioni europee del 2019, in cui Fidesz ha ottenuto il 52% dei voti, Orbán si è sentito investito dal consenso popolare, a ragione verrebbe da dire. L’atto finale, per ora, è stato quello di fine marzo 2020. Nonostante Orbán abbia rassicurato tutti che: “quando questa emergenza finirà, daremo indietro tutti i poteri, senza eccezioni”, molti osservano con scetticismo la situazione politica ungherese, ma senza avere potere di opporvisi. La reazione di sdegno da parte degli organi dell’Unione Europea è stata immediata, come lo è stata quella di molti stati, ma la decisione non è stata revocata. Di fatto, l’UE non ha alcun potere sulla sovranità ungherese, quindi può solo rimanere a guardare, come ha fatto da quasi 20 anni, mentre uno stato membro si trasforma in una dittatura guidata da un uomo che reclama il suo titolo di “leader illiberale”.
Come al solito, però, i soldi potrebbero giocare un ruolo fondamentale: ovviamente l’Ungheria non può fronteggiare da sola i danni economici causati dal lockdown a cui si è sottoposta dal 28 marzo, quindi i fondi europei possono arrivare in soccorso. Sono disponibili €5.6 miliardi per combattere il coronavirus, quindi è improbabile che Orbán userà i suoi nuovi poteri in modo troppo spregiudicato, almeno nel breve periodo. Inoltre, la nazione è estremamente dipendente dai contributi europei, che pesano per il 4% circa sul PIL ungherese. Il vero problema si avrà quando effettivamente si uscirà dall’emergenza. Come molti altri stati, sembra che l’Ungheria sia uscita dalla fase critica, dato che il picco di nuovi contagi (210) è stato il 10 aprile, e il 25 maggio se ne sono registrati appena 15, ma Orbán non accenna a voler revocare lo stato di emergenza. Alla luce di questo, siamo sicuri che tutto tornerà come prima, o forse la crisi della democrazia in Ungheria si protrarrà ancora? E cosa farà l’Europa in tal caso?