di Elisa Fiore
2018, Novembre già disperdeva tra i ricordi ricorrenze, che si scioglievano in fretta come fiocchi e lasciavano i palmi umidi e freddi. Con i parenti si giravano città vicine fingendo più cultura di quella che si aveva. Si passeggiava per Lubiana cauti e insofferenti mentre il sole era un disco di ghiaccio logoro. Attraversato il Triplice Ponte, una via di locali all’aperto ci si stendeva davanti. Noi, prima volta nella capitale, non ci fidavamo delle stufe accese sotto i tendoni, le guardavamo di sottecchi mentre sedevamo curiosi. Lubiana aveva cercato il calore fuori dalla porta di un locale riscaldato. Procurava coperte e fuoco pur di non sprecare la bellezza luminosa del fiume Ljubljanica. Cercava di superare il limite, di trovare l’oasi in un deserto. Non sentivamo più le dita dei piedi, ma è il giusto prezzo per bere senza problemi una birra fresca in una città sotto zero.
Così siamo, come gli sloveni mi hanno ricordato: insoddisfatti per natura, fin dal principio. All’alba dei tempi a combattere la fiacca per non perdere il privilegio di esistere. Oggi a tentare di vivere con la V maiuscola. Cerchiamo l’impossibile perché profuma di regole a cui nessuno ha dato il permesso di imporsi. Bramiamo la carica di dopamina ed endorfina che ci tiene in pugno se cogliamo una situazione sull’orlo del precipizio.
Per superare il limite, per non doverlo più guardare con occhi di rabbia. Quel limite che, ancora non lo sappiamo, ma potrebbe essere il confine dell’unico “contenitore” in cui poter sguazzare, come diceva Samantha Bruno. Questa visione umile sembra quasi essere una resa, una sconfitta, ma è spesso l’umiltà che rende un animo forte, il valore che si contrappone e sostiene il coraggio, le due facce della stessa medaglia. Ma non è mai facile accontentarsi. Gioire di quei risultati inaspettati e forse indesiderati. Come quando cerchi la penna sotto il letto e trovi il biglietto scritto a mano 10 anni fa dal tuo fidanzatino.
Era ancora Novembre, giorno 10, quando gli studiosi Sheppard, Tholen e Trujillo hanno superato un confine fino a quel momento invalicabile: la scoperta del più lontano corpo celeste del Sistema Solare a noi conosciuto. È il 2018 VG18, detto Farout dal gergo inglese “molto lontano” o “non abituale” ed è un pianeta nano di circa 500 km di diametro, rosato e a 120 UA dal Sole. “Ed è tutto ciò che sappiamo” dice Tholen. Come a prenderlo sottobraccio, con l’amaro in bocca. Il team di scienziati aveva infatti un obiettivo più consistente, davano la caccia al pianeta X. L’ipotetico pianeta, detto anche Persefone si dovrebbe trovare oltre Nettuno e i Plutoidi e ha ispirato film e libri. Un bottino ghiotto e ricco di aspettative.
Luca Grion sul sito della Repubblica scriveva “se manca la capacità di tenere a freno un’ambizione, ogni risultato finirà per apparire insignificante, ogni conquista insipida”.
E chi lo sa, forse è proprio Persefone, pianeta e dea greca degli inferi, l’obiettivo logorante dell’equipe scopritrice del Farout. Fatto sta che non mi stupisce questa coincidenza, che sia proprio la regina dell’inferno l’omonima del pianeta X.
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