di Michele Motta

La logica del silenzio contiene in sé svariate accezioni. Nella quotidianità di gruppo si può farne utilizzo per riguardo nei confronti di chi potrebbe rimanere colpito dall’informazione espressa, per non rivelare nulla agli ascoltatori non degni di sapere o per preservare un fatto che riguarda la sfera sentimentale, personale o collettiva. Il silenzio può venire adoperato per far scomparire i fatti; se le cose non vengono dette, non assumono importanza e scompaiono senza lasciare traccia. In alcuni casi si può ricorrere alla logica del silenzio per ottenere vantaggi morali o materiali sfruttando la propria discrezione. Il segreto dunque è a tutti gli effetti una forma di potere sull’altro, il quale, di ciò, non è stato reso partecipe. Qualora venisse enunciato sconvolgerebbe la sua identità sociale e personale, e questo ne accresce esponenzialmente il valore. 

In una comune relazione tra individui una zona d’ombra avvolge gli interlocutori in proporzione a quanto si sono esposti e hanno rivelato di sé. Lo svelamento di sé comporta in ogni caso una serie di pericoli. Alcuni potrebbero sentirsi “abusati” poiché la contraffazione, il mascheramento ha posto la relazione su un terreno “disonesto” (Le Breton utilizza il termine “illegittimo”), nel momento in cui la trasparenza non è avvenuta in entrambi gli interlocutori e chi è rimasto, psicologicamente parlando, “emotivamente nudo” si trova tra le mani un fardello non gestibile postogli dall’altro. Differentemente lo svelamento di sé può avvicinare coloro i quali “si sentono adulati da una simile fiducia” e che non solo non ne subiscono alcuna conseguenza, ma attraverso ciò accrescono la loro autostima. 

Nel momento in cui il segreto (in questo caso di sé) viene rivelato, scompare la zona d’ombra dell’individuo che si è esposto; “il segreto è legato all’individuazione in quanto circoscrive un’identità, la distingue dalle altre, confondendone le tracce” (Le Breton, Sul silenzio, 2018, p. 128). Tutto ciò che è intimo è segreto: l’intera esistenza è celata da un silenzio che la protegge. Il silenzio assume una parte principale nel processo di conoscenza dell’altro. Se mai fosse possibile conoscere pienamente l’interlocutore, sia un parente, un amico o un partner si giungerebbe ad un appiattimento dell’altro, la totale scomparsa di quest’ultimo. Il processo di comprensione del silenzio va a pari passo con la crescita dell’individuo; già il bambino trova la sua dimensione, nascondendo fatti o solamente pensieri ai genitori, facendo valere la propria indipendenza e autonomia su un mondo in cui scopre la necessità, per proteggersi, di non dire tutto. Questo legame che si viene a creare già da piccoli con il mondo circostante viene poi accentuato in età adolescente e adulta; la maggior parte dei rapporti sociali si istituisce tra individui che di fatto rimangono sconosciuti, dei semplici conoscenti, spesso perché il luogo d’incontro è troppo caratteristico e distintivo, il che “rende superflua ogni conoscenza aggiuntiva”. Dell’altro è possibile sapere solo ciò che ci rivela o che altri ci riferiscono di lui/lei e, paradossalmente, questo basta per permettere lo stabilirsi di un legame sociale. 

Se le relazioni sociali permettono la parziale ignoranza della vita dell’altro, il segreto implica un totale impegno da parte di un individuo o di un gruppo di individui di mantenere nascosto un fatto o un avvenimento che se rivelato sovvertirebbe l’ordine delle cose. Nel momento in cui un segreto viene condiviso con il resto del gruppo o più banalmente con un’altra persona, si spartisce una parte di sé, e con essa l’importanza e il valore della parola enunciata. I destinatari si fanno dunque carico di un valore importante che diventa loro e di cui loro possono disporre. Si crea così un “gioco sociale” intorno alla parola data e si alimenta, con coloro che sono all’oscuro del fatto, la zona di mistero che cela l’avvenuto. Magistralmente il depositario del segreto fornisce “briciole di informazione” rompendo parzialmente il silenzio, in modo da mostrarsi potente rispetto all’ignorante che non è a conoscenza del fatto. András Zempléni (1938 – )  parla di “esibizione” del segreto, quando minimi dettagli del sapere vengono forniti per incrementare il valore del segreto stesso.

Psicoanalisi e Silenzio

L’utilizzo del silenzio da parte del terapeuta lo rende più disponibile all’ascolto del discorso formulato dal paziente e, in tal modo riesce a calarsi e a “navigare” nell’inconscio dell’analizzando. La “virtù del silenzio” in psicoanalisi “nasce” da una paziente di Sigmund Freud, una certa Emmy che, infastidita dai continui interventi dello psicoanalista lo sollecita a tacere. Scrive Freud: “[…] in modo decisamente secco mi dice di non domandarle sempre da dove vengono questo o quello, ma di lasciarla raccontare quello che ha da dirmi” (Freud, Breuer, 1892-1895, p. 226). Il silenzio adottato dall’analista si trasforma in un sentire e recepire l’inconscio del paziente; lo psicanalista ha la possibilità di intervenire, ma si astiene per rendere la sua parola più potente e più efficace nel momento in cui decide di interporsi. Come il silenzio dell’analista è l’equivalente di una parola allo stesso modo il mutismo del paziente non implica un non-scambio di informazioni poiché anche se tace, senza che lui se ne accorga parlano la sua postura, i suoi gesti, la sua mimica. Di conseguenza colui che analizza decide se immettersi nel discorso, chiedendo chiarimenti, rilanciando un argomento o dando una spiegazione su quanto detto. “Egli si riserva il diritto di intervenire non secondo la comune ritualità della presa di parola della conversazione, ma secondo ciò che la tecnica psicoanalitica gli suggerisce” (Le Breton, Sul silenzio, 2018, p.141). Il silenzio è dunque garante di un equilibrio psichico creatosi tra analista e analizzando, ed è necessario tanto ad uno quanto all’altro; allo psicoanalista per comprendere a pieno l’inconscio del paziente, e a quest’ultimo per tenere lontana la paura di essere travolto senza beneficio, “rischiando di perdere il proprio radicamento nel mondo”. 

La contrapposizione tra parola e silenzio può tuttavia essere un modo per non centrare mai, da parte dell’analizzando, il punto. Nel momento in cui il paziente si sente a disagio, dentro di lui si crea una volontà contraddittoria; da una parte ha l’intenzione di dire qualcosa, dall’altra si rifugia nel silenzio. Il risultato è un chiacchiericcio insignificante che ruota intorno al punto centrale, al problema del paziente, ma che in realtà non porta da nessuna parte. “La parola viene utilizzata come una fortezza sonora per annegare l’attenzione del terapeuta, per ridurlo all’impotenza, in una profusione di parole che mira a provocare il torpore: si fa ricorso ad un incessante chiacchiericcio per dissolvere l’angoscia. La parola si rivela allora il miglior modo per non dire niente” (Le Breton, Sul silenzio, 2018, p. 143). Abbiamo visto dunque come molteplici possano essere le accezioni che assume il silenzio durante una seduta di psicoanalisi: dal silenzio volontario al fine di sentire l’inconscio del paziente, al silenzio infranto dalla parola dell’analizzando che fa uso di questa per non essere travolto dalla parola dell’analista, al silenzio frantumato da un chiacchiericcio dovuto ad una fragilità interiore da parte del paziente. 

In tutte queste manifestazioni del silenzio quest’ultimo è subordinato alla parola o meglio a un non-detto che ne aumenta il valore. Il completo mutismo invece da parte di entrambi gli interlocutori spinge entrambi ad una costante riflessione su ciò che è stato detto, e induce l’inconscio del soggetto (il paziente) a meditare sugli effetti della sua parola e sulle immagini dei suoi sogni. Scrive Ferdinando Camon: “Le ore più intense e più utili della mia vera analisi sono state le ore “bianche”, senza nessuna parola mia o sua. Il suo silenzio era così totale che avevo l’impressione, e a volte la certezza, che fosse andato via. Poi, dopo mezz’ora, sentivo il colpetto del suo indice che batteva contro la sigaretta, e mi sembrava persino di sentire la cenere cadere sul piattino. Dunque era lì (Camon, 1981, p. 31).

Il non-detto imprime nel paziente un’inquietudine che lo conduce a tormentare il proprio corpo fino a quando questo tormento non verrà espresso attraverso la sua coscienza o mediante l’uso della parola. Durante tutta la durata della terapia (intesa non come singole sedute ma come somma di tali), il silenzio formatosi tra i due si trasforma e con esso, in base all’approfondimento della conoscenza del paziente stesso e alla comprensione del suo inconscio, anche l’ascolto dell’analista. Si arriva così ad una complicità tra gli interlocutori che arrivano, senza incontrarsi, a dialogare attraverso i propri inconsci: “[…] quando scopro nel paziente un conflitto inconscio su cui resto in silenzio per mesi o addirittura per anni, perché considero prematura un’interpretazione su questo aspetto conflittuale, la mia rispondenza non verbale o la mia partecipazione ne sono comunque modificate in maniera significativa. […] Questa scoperta modificherà, anche se in modo sfumato, il mio comportamento, finché il conflitto non giungerà alla sua coscienza in misura sufficiente da poter essere interpretato e risolto. Se, nel frattempo, mi comporto in modo un poco seduttivo o un poco più distaccato o, più probabilmente, in entrambi i modi di volta in volta, sono convinto, pur non potendo affermarlo con assoluta certezza, che il paziente, anche senza ricevere nessuna interpretazione per molto tempo, sarà in grado di percepire, a un qualche livello inconscio o preconscio, che l’analista gli sta rispondendo in modo differente. Inoltre, credo che questa partecipazione non verbale e parzialmente modificata aiuti il paziente a prendere coscienza delle sensazioni e dei ricordi e ad ascoltare e integrare le interpretazioni verbali che riguardano il materiale precedentemente inconscio” (Searles,1960, p. XXIV).  

Conclusioni

Abbiamo osservato come parola e silenzio siano due facce della stessa medaglia, e come una non necessariamente escluda l’altra. Parlando di segreto, abbiamo esplorato i meandri della conoscenza tra individui in cui proprio il silenzio si tramuta, si trasforma, in segreto, in privacy, in intimità. Contrariamente, sempre in questo contesto, la parola diventa un biglietto da visita: può essere modellata a proprio piacimento per stabilire una relazione sociale ma ha anche la capacità di attirare l’attenzione su chi parla attraverso la condivisione di aneddoti agli altri (o all’altro) sconosciuti.  

In psicoanalisi la questione muta radicalmente; il silenzio non viene considerato come una mancanza di fiducia (da parte del paziente nei confronti dell’analista), la quale si esprimerebbe mediante la non condivisione dei propri problemi, e quindi, come abbiamo visto, si farebbe ricorso all’incessante chiacchiericcio, ma al contrario è una metodologia condivisa da entrambi gli interlocutori che pone alla base del rapporto, un equilibrio psichico, necessario tanto all’analista quanto all’analizzando. In tale caso la parola assume un significato del tutto differente; viene utilizzata dallo psicoanalista solo se strettamente necessario, mentre il paziente fa uso di questa in relazione a ciò che vuole dire e/o omettere, e sarà a discrezione dell’analista conferire il peso giusto alle parole pronunciate dall’analizzando.

Parola e silenzio più che mai oggi scrivono la storia della nostra società, e sapere quando bisogna sfoderare l’una o l’altra è la virtù più nobile a cui si possa giungere.