di Margherita Stagni
Il problema del disboscamento e degli incendi in Amazzonia non è un problema nuovo: va avanti da anni ed è entrato nella comune pratica delle aziende agricole e zootecniche in Brasile. Il motivo per cui si rende necessario bruciare grandi porzioni di foresta è la crescente domanda di generi alimentari contenenti proteine animali e di cereali e legumi come la soia, da cui si ricavano i foraggi. Pochi mesi fa, un incendio devastante ha occupato le pagine dei giornali e i servizi dei telegiornali, facendo scalpore e commuovendo la comunità globale, in particolare degli ambientalisti. Sono iniziate campagne di raccolta fondi, sensibilizzazione al tema sui social e in TV, sembrava che tutto il mondo stesse piangendo, preoccupato per le sorti della più grande foresta pluviale del globo. Era una cosa inaudita, com’è possibile che il polmone della Terra stia andando a fuoco? Poi sono arrivate le prime statistiche:”Gli incendi di quest’anno superano in numero quelli dell’anno scorso”. Allora la commozione ha fatto posto alla rabbia, perché è logico e lecito infuriarsi se una cosa del genere, la distruzione di ettari ed ettari di terreno verde, era passata inosservata per anni.
Oltre all’ira contro gli incendi in sé, si stava scatenando anche quella contro gli agricoltori e gli allevatori, che appiccano incendi per guadagnare nuove terre da utilizzare per la produzione di beni alimentari. Appariva chiaro che la colpa dovesse cadere su di loro e sul presiedete Bolsonaro, che consente questa pratica, ignorando completamente il fatto che la deforestazione è un processo determinato dalla richiesta di alimenti da Aretusa dei paesi sviluppati o in via di sviluppo (gli stessi che si commuovevano per il disastro). Paesi come la Cina, che da sola fa circa il 25% della popolazione mondiale, necessitano ovviamente di un approvvigionamento di alimenti costante ed elevato, ma soprattutto a basso costo. Non importa dove o come siano stati prodotti, questi beni di consumo primari devono arrivare, ed ecco perché nel momento in cui la Cina ha risposto ai dazi doganali a Trump sui prodotti agricoli, le esportazioni di soia dal Brasile sono aumentate del 30%. Il sistema capitalistico ci impone questo tipo di ciclo produttivo: all’aumento di popolazione corrisponde un aumento della domanda, che per essere sostenuto dall’offerta necessita dei mezzi di produzione a basso costo e a maggiore rendita, anche a discapito della salute dei lavoratori o dell’ambiente. Nella visione, in parte apocalittica, ma non del tutto errata, dell’economista Thomas Robert Malthus, questo sistema verrà controbilanciato da eventi naturali (carestie, glaciazioni, pestilenze, ecc.), ricorrenti in maniera ciclica nel corso della storia, atti a eliminare le cause dello squilibrio tra disponibilità e richiesta di risorse, quindi in questo caso l’uomo. La nostra specie sembra quasi non rendersi conto del danno che ci stiamo facendo con le nostre stesse mani. Gli allevamenti intensivi ne sono un esempio ecclatante: i mangimi che vengono dati in pasto al bestiame sono iperproteici, in modo tale che la crescita dell’animale sia accelerata, così da poterlo macellare prima. Allo stesso tempo, gli animali vengono riempiti di steroidi e antibiotici, rendendoli più “muscolosi”, quindi più redditizi, e resistenti alle malattie. Tralasciando i problemi di salute che derivano dal consumo di carne così prodotta, bisogna considerare che gli allevamenti di questo tipo producono una quantità industriale di metano, contenuto nelle deiezioni degli animali, che causa l’effetto serra e contribuisce di conseguenza al riscaldamento globale.
Purtroppo, il consumo di proteine animali è in crescita, e nessuno sembra badare alle conseguenze. Non ci riguarda, perché il problema è lontano da noi, un po’ come lo sono gli incendi in California o in Australia, gli uragani nei tropici, le ondate di siccità in Africa. In maniera assolutamente illogica, la popolazione dei paesi sviluppati crede, in una visione perversa dell’ambiente, che le catastrofi si fermino al confine della nazione, come se l’anidride carbonica, i gas serra, le scorie nucleari non varcassero una linea immaginaria che esiste solo nella mente dell’uomo.
Questa visione viene alimentata anche dai governanti. Per fare un esempio, quando il G7 ha deciso di proporre aiuti al Brasile per fronteggiare l’emergenza in Amazzonia, Bolsonaro ha risposto affermando che la foresta appartiene al Brasile, e quindi il paese ha il diritto e il dovere di utilizzarla come meglio crede. L’unico problema con questo ragionamento è che l’ossigeno che noi respiriamo è un bene globale, la biodiversità è un bene globale, le risorse sono un bene globale. Non si può nemmeno dire che appartengano all’umanità, che dovrebbe utilizzarle misuratamente come le altre specie, piuttosto appartengono alla Terra. Non a caso, fin da piccoli siamo abituati a sentirci dire che l’Amazzonia è il polmone della Terra, perché produce gran parte dell’ossigeno nell’atmosfera, e inoltre contiene il 10% della biodiversità terrestre. Nonostante questo, la logica del guadagno impone all’economia l’incuria e l’indifferenza, in modo tale che pochi si arricchiscano a dismisura sfruttando il pianeta, e i lavoratori comuni si guadagnino da vivere intossicando l’ambiente e loro stessi (si guardi ai lavoratori dell’ex-ILVA).
Fortunatamente, diverse persone si stanno muovendo per cambiare il sistema. Greta Thunberg è riuscita a mobilitare milioni di studenti in tutto il mondo, e politici come la senatrice americana Ocasio-Cortez, stanno preparando i cosiddetti “green new deal”, delle riforme atte a cambiare radicalmente il modo di produrre e consumare. La Germania prevede di investire 50 miliardi di Euro in politiche ambientali e incentivi alla conversione delle industrie. Se non si vuole incorrere all’estinzione di massa che gli scienziati prevedono per il 2050, bisogna seguire il modello tedesco, ampliandolo e migliorandolo su scala globale. Investimenti e incentivi per le produzioni ecosostenibili, politiche di sensibilizzazione, cambiamenti radicali nei consumi. Tutto questo è necessario per fermare il fenomeno del riscaldamento globale, ma è anche necessaria la partecipazione di ogni singolo individuo.
L’attuale sistema economico e la mentalità capitalistica vanno contrastando questo tipo di politiche, millantando un’impossibilità di riconversione, o l’inevitabile perdita di posti di lavoro come conseguenza, oppure negando in maniera assoluta l’esistenza del riscaldamento globale. L’ecologia non produce ricchezza, dicono, non è conveniente. Il dilemma ormai si è ridotto a dover scegliere tra lavoro e salute. Ma dopotutto, qual è l’utilità di essere ricchi, in un mondo senza ossigeno? Il mare è pieno di plastica, le specie si estinguono ogni giorno, in India le persone pagano per respirare aria pulita in stazioni apposite. Noi però ci lamentiamo del costo della carne, mentre mettiamo un like e condividiamo le foto degli incendi in Amazzonia.
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