INTERVISTA ALLA GIORNALISTA ELENA PASQUINI
di Lisa Pinto e Desiree Saccavini
Il 5 aprile abbiamo ospitato in redazione Elena Pasquini, una giornalista con un ruolo difficile da svolgere, ma necessario: raccontare la guerra. La sua carriera è cominciata molto presto, infatti ha iniziato a fare pratica nelle redazioni dei giornali appena dopo il liceo. All’epoca erano presenti pochi percorsi di formazione che insegnavano a fare giornalismo. Insomma, un po’ come ora, bisognava rimboccarsi le maniche e fare esperienza.
Ad oggi, Elena Pasquini si occupa principalmente di esteri, dunque si interessa alle relazioni internazionali e svolge alcuni lavori per l’ONU. In veste di corrispondente, ha viaggiato molto, tant’è che ha visto ben sei guerre.
Il suo obiettivo, fin dai primi articoli, è quello di raccontare il nostro mondo, estremamente complicato e continuamente segnato da conflitti.
Il percorso di Elena Pasquini è molto interessante da ripercorrere perché attraversa le trasformazioni del giornalismo. Inizialmente il giornale si componeva a mano, dunque si ritagliavano i testi e le immagini per poi assemblare tutto su una pagina poi mandata alla tipografia. I giornalisti fuori dalla sede condividevano gli articoli dettandoli ad un dimafono e in redazione c’era anche la camera oscura. In seguito, il cambio di passo tecnologico è stato velocissimo e l’avvento dei social ha scombussolato un po’ tutti, al punto che diverse persone, anche esperte in merito, considerano questo evento come la rovina del settore. Elena Pasquini, però, ha un’opinione diversa: la circolazione così veloce delle idee senza i social non sarebbe possibile. Ammette che l’ambiente online non è sempre corretto, però è fondamentale. Le parole hanno un effetto, per questo vanno ponderate con attenzione, ma ormai dobbiamo accettare che Internet è ovunque, anche in mezzo alla guerra.
Alla luce di tali innumerevoli trasformazioni, nel 2024 il giornalista deve avere molte capacità e, soprattutto, è importante che sappia scrivere e parlare in inglese, così da potersi permettere un’apertura al mondo internazionale e, quindi, conoscere nuove prospettive. Il mondo anglosassone, per esempio, offre un giornalismo diverso, molto più vario.
Per la realizzazione dei reportage, Elena Pasquini ha vissuto sulla sua pelle la guerra e ha messo a nostra disposizione la sua esperienza, nonché la sua visione del giornalismo. In primo luogo, ha espresso un certo turbamento per l’assuefazione dell’opinione pubblica in relazione alla guerra, infatti quasi ci si dimentica che in molti stati ci sono persone che non hanno visto altro che il campo profughi e, alla radice, si percepisce il conflitto come inevitabile, ma lontano, una questione che riguarda pochi.
Per tale motivo, la reporter ritiene che si debba ridefinire i concetti di “vicino” e “lontano”, spesso non compresi appieno dallo stesso giornalismo contemporaneo.
A suo avviso, le testate internazionali presentano problemi di narrazione che, oltre a soffermarsi su elementi spesso superflui, descrivono ciò che è esterno ai nostri confini come un mondo distante, che non influenza le altre realtà. Questo preconcetto deve essere sfatato proprio dallo stesso giornalismo, che ha il compito di fornire le informazioni necessarie per permettere al lettore di decidere e vivere con consapevolezza una realtà sociale. Difatti, prosegue la Pasquini, attualmente percepiamo la guerra in Ucraina con maggiore rilevanza solo perché geograficamente è più vicina, ma in realtà tutto è collegato e ciò che accade anche in un altro continente ha degli effetti sui nostri equilibri, pur non sembrando evidente o istantaneo. La guerra in Palestina, per esempio, appare più distante, eppure è storicamente e culturalmente vicina alla nostra realtà.
Apparentemente il compito di un corrispondente è semplice perché la guerra è un fatto oggettivo e inequivocabile. Invece no. Specie in un contesto complesso, come quello di un conflitto, di tutta la situazione si può cogliere soltanto un frangente. Bisogna quindi tenere presente la propria capacità limitata, la necessità e il dovere di considerare le dinamiche da più punti di vista possibili. La scalata verso la verità, però, è ancora lunga: se ognuno ha la propria visione, come si può capire cosa è reale e cosa è frutto di pregiudizi ed emozioni negative? Il modo non c’è, perché l’oggettività assoluta non esiste, e questo è uno dei vincoli da tenere ben saldi. Non si può raccontare la Verità, ma si deve essere intellettualmente onesti con il lettore, dato che la libertà di stampa è funzionale a lui: diversamente da quanto si pensa, è il popolo ad avere il diritto ad un’informazione sincera. Se non si può trovare una versione assoluta, si può almeno cercare di fornire un quadro completo del problema. Il consiglio di Elena Pasquini è di domandarsi quanti e quali occhi possono vedere una storia e cosa si vuole scoprire da ciascuna fonte di informazioni. La politica internazionale non racconta la vita, conta i caduti, ma non mostra le esistenze che la guerra rovina, inoltre tende a stilizzare un contesto labirintico in uno scontro tra “buoni” e “cattivi”, dimenticando che non si tratta di una fiaba per bambini, ma di una realtà con persone, ognuna con le proprie emozioni, necessità e sofferenze da tenere in considerazione.
Per ottenere il sostegno dell’opinione pubblica nello sforzo bellico, si ricorre spesso a propaganda su base etnica, perché per la guerra serve l’odio, quindi una campagna che dipinga il nemico in un determinato modo.
Mentre per combattere serve l’odio, Elena Pasquini sostiene che “alla pace serve la verità”, serve una descrizione onesta dei fatti. La giornalista porta una visione della pace che si distingue dall’immaginario comune: la pace non c’è in assenza di guerra, ma c’è nella straordinaria capacità di trovare un punto di incontro, di vedere il dolore di intere nazioni e di restituire loro la tregua che meritano, di evitare che scoppi un nuovo conflitto.
Questo è il motivo che spinge Elena Pasquini a sostenere che “nella guerra manca il racconto della pace”, che ci sia la necessità di raccontare tutti i canali che provano ad arrestare la spirale della guerra per garantire la sicurezza di ogni individuo.
Per concludere vogliamo riportarvi alcuni spunti di riflessione che ci ha regalato la nostra ospite. Vi poniamo proprio le stesse domande che la giornalista ha posto a noi: voi, lettori, vi state concedendo la possibilità di farvi stupire dal mondo? Come si fa a meravigliarsi? Come si recupera la capacità di stupirsi?
La verità è che tutti abbiamo una nostra idea delle persone e del mondo, dei nostri pregiudizi o preconcetti, non necessariamente negativi, ma che inconsciamente nascono dalla nostra cultura. Perciò, consapevolmente, dobbiamo impegnarci a mettere da parte ciò che sappiamo. Pensiamo di sapere, ma, in realtà, non conosceremo mai la musica, la moda, le risorse di ogni villaggio. Bisogna decolonizzare la storia per raccontare in modo diverso le culture.
Per creare consapevolezza e una coscienza critica il giornalismo è uno strumento assai rilevante. Quando i giornalisti scrivono devono pensare allo strumento conoscitivo che offrono al pubblico.
Bisogna dunque guardare il mondo, imparare a conoscerlo, perché così si vedono le crepe che possono diventare guerre. Esistono delle situazioni prevedibili perciò bisogna raccontarle, anche se non c’è un conflitto evidente.
Attualmente il giornalismo è un lavoro che non tutti hanno il coraggio d’intraprendere a causa della difficoltà ad inserirsi in questo mondo e della crisi economica da cui è segnato. Un giornalista, però, può vantare di far vivere costantemente l’informazione, di far crescere un pensiero dentro ognuno. Questa è la soddisfazione più grande, che ripaga tutte le fatiche.
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