di Lorenzo Candussio 5^E
Traccia n.2
Camus eleva Sisifo ad una posizione in cui risulta essere paradigmatico della vita di ogni uomo. È possibile, in questa esistenza che appare insensata, essere felici?
Camus, a metà del passo, afferma di lasciare Sisifo ai piedi della montagna: è proprio lì che ha inizio il cammino di ogni uomo. La nascita racchiude in sé un fardello, non si tratta di un peccato originale non dipendente da noi, bensì della prospettiva di una vita ricca di possibilità che attende di essere assaporata. L’autore stesso mette subito in luce una caratteristica fondamentale dell’esperienza terrena, e cioè la capacità di poter essere artefici del nostro destino. Con un’eco rinascimentale del “suae quisque fortunae faber” di Pico della Mirandola si assegna a Sisifo, che con il suo mito incarna l’umanità intera, il compito di accogliere tra le sue mani, metaforicamente e fisicamente, l’impresa a cui è sottoposto. L’adempimento alla sua missione è immediato, naturale, coinvolge ogni sfera della sensazione.
Questa precisa situazione descritta nel mito appare assurda, senza significato, ma la condizione del protagonista vuole fungere da esempio per ogni essere umano, secondo l’autore. Il lettore si chiede infatti come sia possibile che Sisifo sia felice (stato d’animo descritto all’inizio e alla fine del passo, come a chiudere in una sfera di gioia l’insieme delle sue azioni), nonostante sia esposto ad una fatica e un peso apparentemente insormontabili.
La posizione dell’uomo appare quella di un “cieco che desidera vedere”, per il quale è impossibile comprendere ogni aspetto della realtà in quanto complessa, mutevole, occulta nell’infinitamente piccolo, fin troppo vasta nell’infinitamente grande e oscura nelle sue cause. Nella presa di coscienza della sua condizione, Sisifo include nel suo mondo ciò che è necessario prendere in considerazione: in questo caso, meramente il macigno e la montagna. Ma – questo è il passaggio fondamentale – egli si rende conto che il successo o la sconfitta, i due possibili risultati della sua sfida, dipendono dalle sue forze. Nella prospettiva di un mondo senza qualcuno che lo domini dall’alto, senza un destino predeterminato, Sisifo decide di imbracciare quello stesso destino che sembra essergli avverso, ma che in realtà rappresenta la continua lotta che l’essere umano intrattiene con le vicende che lo coinvolgono.
Nel paragone (forse non troppo azzardato) tra i granelli della pietra del mito e i granelli di tempo che scivolano attraverso le dita, leggeri e incontrollabili come la sabbia, l’uomo è costretto a confrontarsi con la caducità di ciò che lo circonda, e con l’inevitabile scorrimento degli attimi di vita al di fuori della propria persona. I momenti di pausa (il riposo, le rinunce, i temporeggiamenti) non impediscono al fiume del tempo di percorrere i suoi meandri, perché nessuna diga è in grado di bloccare la sua avanzata. Ma è proprio in questo momento che emerge e prende forma il libero arbitrio dell’uomo, il quale può salire sulla sua barca, impugnare un remo e iniziare a navigare, inserirsi nella corrente e decidere verso quale sponda avvicinarsi, fermarsi un secondo per ammirare la bellezza dei piccoli paesini che si trovano a lato del fiume oppure proseguire, in attesa di un punto di sosta più allettante.
Come può un essere umano vivere nella gioia, sapendo che le sue sofferenze porteranno in qualunque caso alla morte, un mare buio in cui nemmeno la più maestosa delle imbarcazioni potrà preservarlo dalle onde, pronte ad inghiottirlo?
Prima di cadere nell’ “una nox perpetua” prospettata da Catullo, l’umanità è chiamata a voltare il proprio sguardo verso l’altra faccia dell’esistenza, cioè il “sole”, antitetico rispetto al buio che inevitabilmente dovrà affrontare: la sfida consiste nell’essere, ognuno nel proprio piccolo, fonte di luce propria, che riesca ad irradiare coloro che vengono a contatto con essa.
Per essere veramente felici non è possibile ridurre la vita ad una passiva attesa di un miracolo.
La diversità che contraddistingue ogni elemento della razza umana impedisce di racchiudere all’interno di una sfera condivisa di certezze tutto ciò che è Bene e ciò che invece non lo è: lo stesso valore della vita umana – che appare assolutamente inviolabile e indiscutibile – non è riconosciuto dall’umanità intera, che lo interpreta liberamente non appena questa stessa eterogeneità viene giudicata un difetto, e frange di popolazione anche piuttosto vaste vengono ritenute inferiori, quindi non degne di condurre la propria vita.
Al contrario, l’incessante peregrinazione dell’uomo lo porta, molto spesso, a perseguire un obiettivo con un fine nobile, ma che trascina con sé un’insensatezza di fondo agli occhi di altri: azioni che dentro la testa di una persona possono risultare assolutamente fondamentali, mentre paiono insignificanti per coloro che vengono a contatto con questo progetto. Ciò che però nobilita le azioni di Sisifo (interprete del desiderio di moltissimi esseri umani) è la consapevolezza che lui è responsabile dell’esito della sua fatica.
Il comportamento esemplare di Sisifo consiste nel raggiungimento di una condizione alta, denominata “felicità superiore” da Camus: la mente afferma che non esistono dei e idoli in grado di far fronte alle difficoltà al suo posto, e conferisce ai gesti, alle parole e ai pensieri una forza in grado, come in questo mito, di sollevare pesi a prima vista impossibili da sorreggere. Sebbene la battaglia per trasportare la roccia fino in cima possa sembrare priva di senso, per il protagonista è ormai diventata la sua battaglia; di conseguenza, conscio del fatto che non gli verrà concessa alcuna tregua, indirizza ogni suo sforzo verso il compimento del suo scopo.
E allora, per quanto potesse prima apparire assurdo e poco significativo, non è forse sensato, arrivati a questo punto, pensare ad un Sisifo che, silenziosamente, sorride della sua condizione?
Nelle sofferenze, magari a primo acchito dirette verso un vicolo cieco, ma invece volte al raggiungimento di una obiettivo, risiede la piena realizzazione dell’essere umano in quanto tale. La facoltà di pensare, la capacità di discernimento, e la linfa vitale che percorre le vene di coloro che si fanno carico delle proprie azioni (che puntano quindi alla felicità superiore, un vero e proprio Bene in grado di riempire il cuore) sono tutte rivolte alla Felicità.
A questo punto ci si chiede se queste fatiche possano essere affrontate da ognuno personalmente oppure si debbano condividere con altre persone.
L’unione degli sforzi di diversi uomini, tutti intenti a scalare la montagna di fronte a loro (non va intesa come una scalata verso il successo o l’affermazione personale, ma verso il Bene) plasma un’esistenza più luminosa, piena e preziosa rispetto ad una permanenza terrena in cui ogni essere umano, con lo sguardo incollato al proprio sasso, cerca con fatica di spingerlo fino in cima, senza curarsi di ciò che si trova vicino a lui.
I macigni più grandi possono essere sollevati soltanto se l’uomo si accorge che non è solo. Non saranno delle preghiere, degli scongiuri o delle richieste a qualche statuetta di un idolo a trasportare automaticamente, senza sforzo, il proprio peso a destinazione. Ciò che l’uomo deve invece fare è ampliare i propri orizzonti, cercare in se stesso la chiave della propria esistenza e con essa aprire la porta, non sempre visibile con chiarezza, dell’aspirazione con cui vuole far coincidere il senso della propria vita. Allora, una volta varcata quella soglia, si renderà quasi immediatamente conto dell’impossibilità di farsi carico di ogni roccia che gli si presenta sul cammino da solo, e capirà la vitale importanza della collaborazione con chi gli sta attorno.
Inseriti in questo fiume dal quale non abbiamo scampo, destinati a riempire il nostro cuore, pur conoscendo la fine a cui andremo incontro, scopriremo nel corso della traversata che esistono persone in grado di costruire le imbarcazioni, per talento naturale e abilità manuale, così come esistono degli eccellenti rematori, capaci di mettere in pratica tempestivamente gli ordini dei comandanti, e senza i quali la nave continuerebbe a procedere senza virare. Noteremo che esistono consiglieri, la cui attitudine permette di fornire informazioni al timoniere, in modo che le sue decisioni non risultino inesatte, e che esistono condottieri, i quali hanno a cuore il bene di tutti, dispongono di una visione della situazione globale più completa e sanno indirizzare l’intera nave verso il punto giusto, senza schiacciare coloro che la pensano diversamente o non vedono immediatamente la meta.
Non sappiamo in partenza quale sarà il nostro ruolo, ma l’arricchimento mentale ed emotivo derivante dal confronto con l’equipaggio della nostra imbarcazione è indispensabile per non farci sprofondare in una condizione in cui ci sentiamo ai piedi della montagna, privi di forze e di un obiettivo, a capo chino e incuranti della cima che attende il nostro arrivo. La felicità che anima il cuore di Sisifo è quella di ognuno di noi quando sa di aver dato il massimo per il raggiungimento di un obiettivo, e quindi è certo di non aver sprecato la propria vita.
Al termine del viaggio, non potremo improvvisamente volare verso l’alto, ritornare alla sorgente del fiume e ripercorrere il suo corso nuovamente: per quanto la metempsicosi risulti affascinante, non sembra essere il meccanismo su cui si fonda la realtà. Ciò che invece è nelle nostre facoltà è il perseguimento del Bene di cui ci siamo fatti artefici e promotori, in modo da diventare, per coloro che decidono di mettersi all’opera nel futuro, una di quelle voci che l’uomo assurdo ascolta, e che gli mostrano quale possa essere il risultato dei propri sforzi. In riferimento alla sua poesia (ma il paragone è condivisibile) Orazio, il poeta latino, scrisse “non omnis moriar”, riconoscendo la fugacità della propria vita, e conferendo alla sua opera poetica una funzione eternante. Se non tutti gli uomini sono in grado di farlo tramite la produzione artistica (di ogni tipo), potranno riuscirci con le loro azioni.
Ciò che ogni uomo deve tenere a mente è che il raggiungimento della felicità non prevede un insieme di regole da seguire alla lettera, una fredda precettistica con confini rigidi e invalicabili, ma si fonda sulle parole scritte da Camus a proposito di Sisifo: “il destino gli appartiene”. E’ nostro dovere dare forma a questo destino e trasportare il masso della nostra esistenza in cima alla montagna.
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