di Giovanni Tomasetig

«Prendo ogni giorno questo autobus alla stessa ora. Vedo la stessa gente. Vado negli stessi posti. È incredibile quanto io trovi monotona e noiosa la vita già a diciassette anni…»
Più o meno era questo che pensavo ogni mattina a quella fermata dove mi toccava sostare per lunghi minuti ogni sacrosanto giorno di ogni sacrosanto mese di ogni sacrosanto anno. La mia non era un’adolescenza particolarmente attiva, piena di esperienze e di novità come lo sono tante, anche quelle dei più sfortunati. No: io mi annoiavo e basta.
Abitavo in una zona periferica della Città, vicino alle fabbriche di carta, non particolarmente vivace, ma nemmeno decadente. I palazzi erano tutti simili, ma non erano case popolari, perché quelle stavano nel settore dedicato; erano più che altro un nuovo stereotipo del vivere moderno della nostra epoca. Appartamenti tutti uguali, quasi tutti ammobiliati con gli stessi motivi biancastri orrendi. La tristissima carta da parati a volte si staccava, ma per fortuna non era difficile riattaccarla con delle colle apposta che stavano giù nell’atrio di ogni complesso, in enormi barattoli.
Avevo pochi amici nel mio palazzo, roba come due o tre. Le sere stavamo sul tetto e ogni tanto uno di noi portava qualcosa da mangiare o da bere e cenavamo lì insieme, in silenzio. In silenzio, sì, perché nessuno aveva mai nulla da raccontare: le nostre vite erano praticamente identiche, a parte forse quella di Kat, perché lei era l’unica ragazza. Credo fosse l’unica cosa che ci distingueva: il sesso. Avevamo tutti uno stile simile, copiato dallo stesso cantante dello stesso gruppo musicale che tutti ascoltavamo, piuttosto che dallo stesso attore. Indossavamo le stesse scarpe da ginnastica sgualcite, forse di colori diversi, gli stessi jeans enormi da lavoro, le stesse magliette strappate, le stesse felpe e gli stessi giganteschi giacconi con le toppe sulla schiena con il simbolo che ci eravamo scelti.
Avevamo questa cosa, noi del nostro gruppo: quando ci eravamo conosciuti, dopo il trasferimento, ci eravamo detti che ci serviva un simbolo identificativo, un qualcosa, e avevamo scelto una toppa con un disegno sulla schiena della giacca. Ognuno se ne era scelto uno che era un po’ come un tatuaggio e niente, ora ce lo teniamo per sempre a ricordo di quel momento.
Quella volta ci venivano ancora idee originali.
L’arrivo dell’autobus mi risveglia dalla trance in cui sono caduto per qualche minuto. Mi guardo intorno e vedo gli altri ragazzi privi di sguardo che ciondolano sul posto aspettando che le porte si aprano. Butto la gomma da masticare nel cestino vicino al palo e mi sistemo lo zaino sulla spalla.
La porta si apre con un cigolio, salgo e mi appoggio con la schiena al fondo del bus, posando lo zaino a terra. La schiera di teste identiche di fronte a me farebbe quasi impressione, se uno  entrasse senza vivere qui in zona: qui hanno tutti lo stesso taglio, ovvero rasato a zero sui lati e un ciuffo sopra la fronte, il più delle volte colorato di qualche tinta luminescente che brilla con le luci blu dell’autobus, roba molto alternativa, se non fosse che ce l’hanno tutti. L’ho avuto anch’io per un po’, ma senza la tinta, perché i miei sono all’antica e tinte ai capelli, tz! Manco parlarne si può. Fatto sta che un po’ di tempo fa ho deciso che mi aveva stancato, o meglio, mi aveva stancato essere identico a una specie di orda di zombie fusi geneticamente con degli evidenziatori, così prima ho lasciato crescere un po’ tutti i capelli e poi mi sono fatto aiutare da mia madre, che si diletta a tagliare i capelli in giro, ad esempio ad amiche, oppure a mio padre, a farmi una specie di cresta corta, rasando tutto sui lati e solo un po’ sopra, mantenendo qualche millimetro in più. È più facile a vedersi che a dirsi, fatto sta che non ho una punta di pennello colorata in testa, questo è quanto. Per convincere i miei ho usato la scusa dell’individualismo e ha attaccato.
Scruto gli altri ragazzi nella lattina. È un autobus riservato al trasporto mattiniero degli studenti, quindi in genere non ci sono adulti, anche se in realtà qualcuno ne usufruisce anche per arrivare vicino al posto di lavoro (in genere gente d’ufficio o impiegati, con completi poco costosi e valigette smangiucchiate e consumate all’impossibile). Gente di periferia. Qualcuno degli altri ragazzi lo conosco, molti no.Pur abitando nello stesso distretto abbiamo una vita sociale molto vuota e difficile. Una ragazza mastica una gomma scarabocchiando su un quaderno, seduta sul sedile di fianco a dove sono io, ascoltando musica metal ad alto volume che sento uscire dalle cuffiette. Un altro ragazzo vestito leggermente più elegante degli altri legge un libro. Un’altra ragazza prepara la cicca da fumare dopo. Più o meno lo scenario e lo stesso ogni mattina. Poche persone parlano fra loro.
All’inizio sono troppo narcotizzato dal sonno per notarlo, ma dopo un po’ vedo un tizio. È seduto, quindi non vedo il suo corpo per intero da dietro, essendo coperto dal sedile, ma qualcosa riesco a capirlo. Ha una giacca come la mia, stesso modello e stesso colore, pantaloni di un modello uguale ad uno che possiedo anche io e le mie stesse scarpe, mentre in testa porta una cuffia rossa scura, uguale identica ad una che mi pare di aver già visto.
Da lontano si direbbe che siamo la stessa persona.
Rido e scuoto la testa, mi perdo nei miei pensieri e quando mi riprendo mi accorgo di essere almeno due fermate avanti rispetto a dove sarei dovuto scendere. Premo il tasto e scendo alla prima, imprecando.

La mia giornata trascorre tranquillamente, a parte l’imprevisto della fermata, anche se c’è una cosa che mi frulla in mente: dove diavolo ho visto quel berretto rosso? Non so perché mi sia entrato così a fondo in testa, ma quel tipo mi ha inquietato. Avrei detto di conoscerlo o almeno di averlo già visto in giro.
Tornando a casa sono stanco, non so perché, ma lo sono. Mi sento pesante. Mi sembra di non riuscire a muovermi. Deve essere uno degli attacchi che mi prendono di solito, infatti dopo un po’ mi passa. Per mia madre si tratta di semplici attacchi di ansia, ma secondo me sono piuttosto il frutto della mia immaginazione a causa della noia: ho inventato una forma di disturbo per darmi qualcosa a cui pensare.
Scendo dal bus ed entro nell’atrio del palazzo. Non c’è nessuno e i miei passi riecheggiano, ritmati, nel salone. Le pareti sono dipinte con un colore che ricorda il legno, ma che in realtà è una vernice che lo simula, mentre il pavimento è coperto di larghe piastrelle giallastre, che non sono in grado di dire se siano realmente così o se siano ingiallite dal tempo e dall’usura. Rallento i miei passi per qualche secondo e mi godo il suono, poi butto lo sguardo verso le scale e lo vedo: il tipo con il cappello rosso. Guarda la mia cassetta della posta beato, muovendo la testa a ritmo (probabilmente ha le cuffiette).
Sto per gridargli qualcosa, ma non ci riesco. La mia attenzione si è spostata sulla sua giacca, che non è uguale alla mia, come avevo pensato questa mattina: è proprio la mia. È girato di schiena, perciò vedo la toppa cucita a mano dalle scapole in giù. Non può essere una copia, perché l’ho disegnata io quella toppa. Non può esisterne un’altra uguale.
Il tipo ha finito con la posta senza prendere niente, si sfila il cappello con una mano e si gira, come per avviarsi agli ascensori.
Lo vedo in faccia e arretro… Descrivere ciò che vedo è…difficile. Voglio dire, in sé il concetto è semplice: è identico a me.