Si sale. Ogni minuto che passa, si va sempre più in alto, le montagne si ergono insieme a noi. C’è il verde degli alberi, il grigio della roccia, l’arancione di alcune foglie, e noi saliamo. Non c’è il mare, quello vero, quello azzurro, ma ce n’è uno verde, formato da chilometri e chilometri di ulivi che corrono veloci fuori dal finestrino.

delfi Delfi è nascosta, isolata da tutto ciò che la circonda, bloccata in un altro tempo. Delfi, semplicemente, è inaspettata. Gli infiniti scorci di paesaggi tutti simili fra loro, le innumerevoli curve, la valle che continua ad allontanarsi man mano che si avanza, fanno sorgere spontaneo il dubbio: ma una meta a cui giungere c’è? Poi all’improvviso ci si ferma, bastano pochi passi, si alza lo sguardo ed è tutto lì, immobile, vasto e solenne. É qui, è questo il famoso “ombelico del mondo”, il luogo che, secondo la leggenda, Zeus avrebbe indicato come il centro dell’intero universo.

Secoli, millenni fa, uomini di tutte le età e provenienti da tutta la Grecia, si arrampicavano su questi monti, con richieste e  dubbi, in cerca di consigli e risposte, guidati da un’indiscussa fiducia nei confronti delle parole della Pizia, sacerdotessa di Apollo. Tantissimi gradini portano alla graduale scoperta dell’intero sito archeologico. Partendo dal tempio principale si giunge, seguendo la “Via Sacra” tempestata da piccoli edifici votivi, al teatro ed infine, sulla sommità del monte, allo stadio.

Per ricostruire la grandiosità del santuario dedicato ad Apollo e degli edifici circostanti, è necessario un piccolo sforzo di immaginazione, ma nonostante le condizioni delle rovine, si percepisce la piccolezza dell’uomo, minuscola formica circondata dall’immensità della storia e della natura, ma parte integrante di entrambe.

Sul frontone del tempio di Apollo compariva un tempo la scritta “CONOSCI TE STESSO”. Fermi, circondati da enormi rocce, la valle che si estende là sotto, mentre si sfiora con lo sguardo la sottile linea del mare sullo fondo, si prende coscienza di sé.  E sì, è vero che ci si accorge di quanto si è insignificanti paragonati all’infinito che si srotola davanti agli occhi, ma ci si rende conto dell’importanza di ciò che siamo. Avviene con una semplicità disarmante. Ci sono il sole, la brezza, gli ulivi, le alte colonne in rovina, e ci siamo noi.

Non siamo entità fuori posto, l’intervento umano – il santuario – non invade la natura, ma la completa e in quest’atmosfera ci si sente parte di qualcosa, senza esserne intimoriti.

A Delfi il tempo è sospeso. Spontaneamente si percepisce che il teatro, il tempio e lo stadio sono qui da sempre e per sempre qui resteranno. Le lancette non si muovono alla stessa velocità del mondo esterno, ma i minuti e le ore si dilatano, inghiottendo questo luogo che il passato ha rovinato, ma mai cancellato.

Saranno milioni, nel corso dei secoli, gli uomini che hanno calpestato questa terra, con intenti diversi, stati d’animo differenti, animati da chissà quali desideri o motivazioni, ma tutti, giunti al santuario, anche ammirando per pochi secondi il paesaggio, avranno sentito che in questo luogo c’è qualcosa di strano, ci si sente come sotto una campana di vetro, l’aria cambia.

“Di là, pieno d’ira procedesti rapidamente verso la montagna, / e giungesti a Crisa, collina rivolta ad occidente, / ai piedi del monte Parnaso coperto di neve. Su di essa / incombe una rupe, e di sotto si estende una valle profonda, / scoscesa. Là Febo Apollo, il signore, decise / di innalzare l’amabile tempio.”  Mentre il gruppo teatrale legge questi versi tratti dall’ Inno ad Apollo, è possibile, per un momento, viaggiare nel tempo e tornare in quel passato lontano e mitico, e per farlo non è necessario chiudere gli occhi e concentrarsi su ciò che si sta ascoltando, bensì voltare la testa e semplicemente guardare ciò che si ha di fronte: gli occhi vedono ciò che è scritto, i piedi toccano ciò che è stato mille e mille volte schiacciato, la pelle riflette quello stesso sole.

Visentin Giulia 5^C