di Camilla Zanini 

Domenica. Ho scoperto che il mio nuovo vicino di casa è un gatto tutto grigio con un nastrino nero legato al collo. Da qualche giorno quando esco di casa lo trovo sempre lì,  accucciato fuori sul pianerottolo che mi guarda, miagola, mi si struscia addosso, poi si infila dentro casa mia. Io lo lascio fare. Non riesco a disturbare la dignità con cui annusa i cassetti della mia cucina. Aspetto che finisca l’ispezione e torni ad accucciarsi fuori sul tappetino, cosí ho il permesso di chiudere e andarmene.
In questa città del nord, durante la settimana, centinaia di persone non fanno che ripetere le stesse cose, per ore. Un gigantesco effetto Larsen che si dilata e si restringe, e avvolge tutto come una membrana. E la gente è chiusa negli uffici alle dieci del mattino. E tutti i cartellini sono stati timbrati. Le macchine parcheggiate. I figli a scuola. Ed in giro rimangono vecchietti, fattorini, universitari, sfigati. Ci sono giorni che l’intera città si direbbe del tutto cava. E in piazza si può prendere perfino un po’ di sole. Ma di domenica c’è movimento.
La Danimarca mi ha regalato un senso di ordine emotivo che mi mancava:
ci sono cose che devi accettare. O semplicemente dovresti. Accetta il fatto che ho difficoltà nel permettere a qualcuno di scavare dentro di me, e alcune di queste fondamenta sono profondamente interrate. Serve tempo. E fatica. Accetta che non sempre mi è facile regalare pezzi di me. Ho pochi assi e tanti vizi. E se hai intravisto qualche pagina della mia biografia non puoi vantare una profonda conoscenza. Lo stesso autore ha grosse difficoltà.
Accetta di arrivare secondo. Soprattutto quando i primi rappresentano cose veramente importanti. Accetta il fatto che non tutti trovano facile distinguere l’attore dal suo personaggio, alcuni però ci provano.
Accetta il fatto che non tutti ti trovano interessante, brillante e piacevole; e questi non valgono meno di te perché non capiscono i tuoi talenti. Accetta che a questo mondo esistono anche coloro che stanno più o meno bene con loro stessi, anche se questo non li rende completi. Accetta che quello che senti, pensi, intuisci, possa essere completamente sbagliato.
Accetta il fatto che a volte i silenzi non nascondono nulla. E non devi sistematicamente riempirli con i tuoi perché. Impara ad accettare le cose per come vengono perché non sempre ti è permesso poterle cambiare. Accetta anche quelle domande a cui non segue risposta. E accetta anche i no come risposta, diversamente saranno seguite da…insulti.
Accetta di dover conoscere te stesso prima di poter pretendere di conoscere gli altri.
E accettami per come sono. Semplicemente un pezzo di carne. Accetta che ho un pessimo carattere e che a volte ferisco le persone dicendo cose che non penso e che colpiscono nel profondo. Fanno male. Accetta le mie scuse…
Ho deciso di ritornarci, in Danimarca, perché sono troppo stanco per reinventarmi qualcos’altro. Ho deciso di ritornarci perché sono stato per troppo tempo sul lato sbagliato della strada.
È brutto capire che ‘mai’ è una promessa che appena è pronunciata è infranta. Eh, già.
Ma non so spiegarvi cosa prevale dopo…Rabbia? Delusione? Tristezza?  Sembrava un destino già scritto. Immaginare e perdere…
E per troppo tempo mi sono chiesto se il pollice opponibile non bastasse a fare di me un Uomo Sapiens. Se un idiota si sarebbe comportato meglio.
Non riuscivo a cancellare niente. Niente. Niente. Niente… Soprattutto quei suoi tramonti e alcuni pezzi di passato. I bisbigli in quella lingua a me incomprensibile, tutto.
Era tutto dentro questo muscolo. Il mio cuore è solo un muscolo. Già. Il suo invece è solo la somma di due atri e due ventricoli. Quindici centimetri per dieci. Trecento grammi. E cinque litri di sangue al minuto. Ma per lei cinque litri sono più che sufficienti. Già. Io sono nulla seduto su quel gradino. Il gradino numero tre dal basso. Il gradino del vincitore se solo fossi stato seduto dal lato giusto della strada. Già.
Nella mia vita precedente di sicuro ero un ascensore. E di quella mi è rimasta un’esistenza piena di alti e bassi, sempre appeso a un filo. Sono tornato per uscire dalla mia traiettoria. E provare a non farmi più male. E no, non è il caso. Perché io non chiedo, perché io non aspetto, perché io mi sono stancato. Perché sono sempre io a fare i primi passi. Ad azzardare. No, non è più il caso. E riprendo a fare foto. E suono ancora. E mi consumo l’indice su un do minore.
Sorrido al mio nuovo vicino di casa. Se n’è stato sdraiato per tutto il tempo della mia storia. Eh  già. Probabilmente non gli interessa proprio. La verità è che lo invidio. La verità è che non gli manca niente. La verità è che almeno ha pazienza. La verità è che lui almeno fa finta di ascoltarmi.
La globalizzazione, piaccia o non piaccia, è una realtà: essere cittadini del mondo significa essere esseri che non odiano gli altri, che non li temono, ma, al contrario, vedono con favore il moltiplicarsi dello spazio capace di accogliere le nostre idee, la nostra qualità, la nostra cultura, i nostri valori.
C’è solo un problema: quello spazio non ti arriva a casa, come il gatto grigio. Non ti viene regalato, non costituisce una rendita. Bisogna andare a prenderselo, tutti i giorni, vivendo senza paura, senza restare chiusi nel proprio fortino.
Perché poi molti dicono che viviamo un tempo difficile, pericoloso, pieno di insidie, e forse hanno ragione. È però anche un tempo bellissimo. E questo tempo bellissimo ci consegna nuove opportunità.
Non sarò mai un ipocrita. Mi piace essere me stesso, dire le cose in faccia, non fingere. Loro la chiamano arroganza, io la chiamo trasparenza. Loro la chiamano tracotanza, io la chiamo libertà.
Non voglio fare di più. Voglio cercare di fare meglio, dare il meglio di me stesso, portare alla luce il meglio. Questo è il mio orizzonte oggi. Questo è ciò che il gatto grigio ha risvegliato in me anche oggi.