di Sara Candussio 

Le diete moderne prevedono una riduzione all’osso di tutti i fattori che ci possono fare guadagnare peso. Nel Medioevo, però, la dietetica era vista diversamente: un medico-gastronomo vi avrebbe consigliato un simile regime alimentare, guidato da ciò che piace.

Alla base di tutte le cose c’è equilibrio.  È questo il messaggio che il professor Massimo Montanari, docente di Storia Medievale all’Università di Bologna, ha trasmesso nella lezione da lui tenuta il 23 marzo scorso presso la Biblioteca Guarneriana di San Daniele, un incontro dal titolo Il piacere e la salute: La cultura del cibo nel Medioevo, tra gastronomia e dietetica.
Il docente ha iniziato la conferenza chiarendo la differenza tra gastronomia e dietetica: la prima è la ricetta “teorica” dietro l’atto pratico del cucinare, la seconda è quella che lui si è divertito a definire il “background della nutrizione”.
Oggigiorno è semplice distinguere immediatamente il significato delle diverse parole: associamo grossolanamente la gastronomia a qualcosa di generale, come i piatti tipici di un popolo, e la dietetica ad uno stile di vita che ci permetta di mantenerci in salute e in forma.  Nel Medioevo invece non esistevano trattati di dietetica che non parlassero anche di gastronomia. Ne è d’esempio il manuale custodito proprio nella Guarneriana, che ha ispirato l’intervento del professore.
Già Ippocrate riconosceva nella dieta la misura preventiva alle malattie, vedendo la medicina unicamente come un intervento aggiuntivo, per riparare a qualche danno: se vogliamo stare bene, dobbiamo mangiare bene. E mangiare bene significa assumere cibi in rapporti equilibrati tra loro.
È necessario a questo punto chiarire la visione che gli antichi avevano del mondo che li circondava: tutto ciò che esiste è la combinazione di quattro qualità, ovvero caldo e freddo, secco e umido, a due a due in contrapposizione.
Il numero quattro è ridondante nella comprensione di ciò che siamo e ciò che ci circonda. Il nostro corpo è un microcosmo individuale, distinto da quattro umori, quattro organi corporali e quattro temperamenti (riportati sotto nell’ordine umore-organo-temperamento).

  • il sangue, il cuore, il temperamento sanguigno
  • la bile gialla, il fegato, il temperamento bilioso
  • la bile nera, la milza, il temperamento malinconico
  • il flegma, la testa, il temperamento flemmatico

Gli umori sono liquidi in circolo dentro di noi, presenti in base all’età (i giovani sono più umidi e caldi dei vecchi), al clima, alle stagioni, al genere (le donne sono più umide e fredde degli uomini) e alla presenza di una malattia.

In relazione a quest’ultima, a lungo è stato acceso il dibattito riguardo la natura della medicina (ed è ancora un tema molto sentito ai giorni nostri), se questa dovesse essere correttiva o conservativa. L’approccio correttivo, storicamente affermatosi,  agisce a malattia manifesta e opera per contrasto, al fine di riequilibrare l’alterazione avuta; l’approccio conservativo, vivo ancora oggi nell’omeopatia, ragiona invece per affinità. La medicina ha perciò sempre avuto come obiettivo quello di curare, ovvero di “temperare” lo squilibrio del corpo.
Ritornando dunque al tema della dieta come medicina preventiva, gli studiosi medievali avevano notato che in natura non esisteva alcun cibo “equilibrato”, tale da presentare in sé tutte e quattro le qualità, e che la sostanza grezza doveva essere per forza manipolata per risultare temperata. Si pensi ad esempio all’alimento più comune e importante nel Medioevo: il pane, sintesi del secco (i cereali), dell’umido e del freddo (l’acqua e il lievito)  e del caldo (il fuoco per la cottura).

Ruolo chiave nel processo di modificazione della natura è pertanto la cucina, idea che resterà in vita, sia nella cultura popolare che elitaria, fino all’affermazione del pensiero di Rousseau che identificava la natura con il bene: in base a questa visione tutto ciò che la natura offre è a prescindere positivo, quindi non c’è bisogno di alterarlo.
Tutto questo non è lontano dalla nostra idea di dieta: amanti del biologico e del naturale, sentiamo ancora oggi l’eco del pensiero di Rousseau.
Al contrario l’alimentazione e la cucina nel Medioevo si basano sulla teoria dei contrari, sull’accostamento di opposti. Per questo le pietanze medievali erano guidate da un gusto sintetico: una mescolanza di sapori sia nel pasto in generale che all’interno delle stesse pietanze. Ciò che è percepito dalle papille gustative per gli uomini del tempo erano le quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido) rese esplicite. Come faccio a sapere se mi fa bene assumere qualcosa? Semplice: se il sapore mi piace significa che la qualità che esso esplicita è giusta per me; non a caso la stessa parola “appetito” è etimologicamente derivata da adpetere, “aspirare a”.
L’elemento farmacologico nel pasto risiedeva nella salsa. Anche il termine “sapore” è a sua volta derivato da “sapor“, termine con cui si indicava anche la salsa che dava gusto alla pietanza, perciò l’aspetto farmacologico del cibo risiedeva proprio nel condimento.
È quindi evidente la diversa prospettiva dei medievali, che prevedeva un approccio alla salute basato sulle sensazioni, rispetto alla visione di Lavoisier, padre della chimica, per il quale la base della scienza non è più la qualità ma la quantità delle sostanze.  

Nonostante alcune considerazioni antiche che ci fanno sorridere, come l’identità tra quello che ci piace e quello che è salutare (fosse così, nessuno avrebbe bisogno di diete a basso contenuto di zuccheri e grassi), l’approccio galenico e medievale affascina per la sua attenzione all’equilibrio del corpo. Infatti una mancanza della medicina moderna è proprio la visione complessiva della persona in una terapia che deve risolvere un problema che appare localizzato, dimenticandosi di preservare l’armonia generale. Il messaggio che ci resta dunque dai medievali è l’accortezza a “trattarsi bene”, a non tendere ad eccessi, una visione che forse oggi, almeno nell’alimentazione, abbiamo dimenticato.