di Lorenzo Altomare

Pier Paolo Pasolini è stato uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, capace come pochi altri di cogliere lo Zeitgeist dei suoi contemporanei e la radicale trasformazione culturale che avrebbe cambiato in modo irreversibile il nostro paese.
Figura eclettica, poeta e scrittore, ma anche drammaturgo, attore, sceneggiatore e regista: noi ci limiteremo a parlare di quest’ultimo Pasolini, cercando di rintracciare l’evoluzione del suo pensiero a partire dai suoi film più importanti e significativi.

Come sostenuto nell’intervista del 1974 presso il programma “Settimo giorno” condotto da Enzo Siciliano, per il poeta friulano, che aveva già maturato nel 1960 la necessità di sperimentare nuove forme di comunicazione, il cinema “non è una tecnica letteraria ma una vera e propria lingua” transnazionale e transclassista, in cui “la realtà è rappresentata non attraverso simboli ma attraverso la realtà stessa”. Pasolini non era mai stato un cinefilo e inizia a lavorare da regista come assoluto novizio, riuscendo comunque nell’intento di reinventare il linguaggio cinematografico: risentendo dell’influenza dello storico dell’arte Roberto Longhi, già suo professore all’università di Bologna, realizza le sue scene con la camera ferma ed una costruzione geometrica dell’immagine, in cui la disposizione spaziale degli oggetti e delle persone rimanda alla composizione pittorica medioevale.

Per il suo primissimo film, Accattone (1961), ad aiutare Pasolini ci fu un aiuto regista che nei decenni successivi avrebbe raggiunto la fama a livello mondiale, Bernardo Bertolucci, con il quale sarà legato per tutta la vita da una profonda e sincera amicizia. Il tema principale del film è la difficile condizione delle periferie e del sottoproletariato romano, già trattato dallo scrittore di Casarsa in alcuni dei suoi più famosi romanzi e poi ripreso anche nel secondo film, Mamma Roma (1962). L’uso della macchina è ancora primitivo, con movimenti improvvisi e brutali che, anche se in parte dovuti alla sua inesperienza come regista, rendono efficacemente l’atmosfera violenta in cui si svolgono le vicende.

I due film successivi, La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964), permettono di comprendere al meglio la singolare concezione della religione elaborata da Pasolini, il quale, pur professandosi ateo, credeva comunque nell’esistenza storica di un “Cristianesimo primitivo”, lontanissimo dall’istituzione attuale della Chiesa e molto più vicino al rapporto dell’uomo con la comunità e alle condizioni dei più poveri. Nonostante la differente sorte toccata alle due opere, con la prima sequestrata il giorno stesso della sua uscita per “vilipendio alla religione di stato”, e la seconda, invece, esaltata dalla critica di stampo cattolico -tanto da ottenere una recensione positiva sulle pagine dell’Osservatore Romano-, la concezione di base da cui parte Pasolini è la medesima per entrambe: “Cristo è divino nel senso che in lui l’umanità è al livello più alto” e, come ricordato da Orson Welles nel finale non censurato de La ricotta, “crepare è stato il suo modo di fare la rivoluzione”.

Se Uccellacci e uccellini (1967) rappresenta ad un livello professionale uno dei suoi lavori più importanti, avendo avuto la fortuna di avere nel suo cast il grande attore napoletano Totò, Edipo re (1967) è, da un punto di vista filosofico, una delle sue opere fondamentali. Il film, come ci dice lo stesso poeta, può essere interpretato secondo due chiavi di lettura: l’opera è sia la rappresentazione simbolica in tre momenti della vita di Pasolini, sia un’analisi dei temi della psicoanalisi e del mito attraverso una riproposizione cinematografica della tragedia di Sofocle, ma in cui “invece di proiettare il mito sulla psicoanalisi, si proietta la psicoanalisi sul mito”. Degni di nota sono anche i film girati nei due anni successivi, Porcile (1968), Teorema (1969) e Medea (1969), quest’ultimo con protagonista l’attrice Maria Callas e girato anche nell’isola friulana di Grado, su cui non ci prolungheremo per ragioni di spazio.

Nelle sue ultime opere cinematografiche assume poi un ruolo centrale il tema del sesso: se nella trilogia della vita questo è l’elemento cositutivo che permette la piena realizzazione della libertà e funge da fondamento ontologico per le società fiabesche descritte nei film, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) Pasolini sviluppa una concezione pessimista del sesso, ora inteso come un regime di amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi, ridotti a pura macchina di godimento. Come ci ricorda lo psicoanalista Massimo Recalcati, in Salò “si tratta di mostrare che la sola cosa per cui vale la pena vivere è il proprio godimento, che non esiste altra Legge al di fuori di quella imposta dall’imperativo del godimento”: la “nuova industrializzazione” non si accontenta più di un “uomo che consuma” ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, come scritto da Pasolini sul “Corriere della sera” in un articolo del 9 dicembre 1973. Questa trasformazione dei valori dei ceti medi, chiamata dall’intellettuale friulano “mutazione antropologica”, viene analizzata negli Scritti Corsari, in cui l’ideologia consumistica viene definita come una forma di neofascismo totalizzante e totalitario -nel senso dato al termine da Marcuse ne L’uomo ad una dimensione, ovvero di un’organizzazione economico-tecnica che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti- il cui unico fine è la riorganizzazione e l’omologazione di tutta la società, con un appiattimento delle classi sociali che ormai abbracciano tutte i concetti di consumo e benessere. Pasolini non potè però vedere la presentazione di Salò al grande pubblico, dal momento che venne ucciso in condizioni sospette – e ancora oggi non del tutto chiarite – il 2 novembre 1975, lasciandoci in eredità un pensiero che, anche se a lungo criticato come contraddittorio, è stato capace come pochi altri di riflettere con estrema lucidità sul presente e di intravedere i suoi sviluppi futuri.