di Mattia Piccoli, illustrato da Giovanni Tomasetig
Ricordo che quando eravamo piccoli giocavamo a tirare i ciottoli il più lontano possibile dalle mura della città e il più possibile vicino alla sua gemella, che distava qualche centinaio di metri ed emergeva dal dorato deserto come un piccolo colle dalla cima spianata, stagliandosi sul cielo azzurro. Forse facevamo quel gioco per soddisfare simbolicamente il nostro desiderio di infrangere la legge secolare di non allontanarsi dall’entrata oltre la cinta monolitica della città, legge le cui origini e i cui fondamenti s’erano persi da tempo ma che seguivamo senza porci quesiti.
Più avanti mi iniziai a chiedere chi fossero gli abitanti di quella città e se fossero come noi, se amici o nemici, e perché non potessimo andare da loro. Fin quando, un giorno, per un mio atto di goliardia giovanile uscii dal portale al tramonto. Il cielo aveva assunto all’orizzonte un color granata che andava salendo verso lo zenit fino a diventare un azzurro scuro quasi blu e iniziava a riempirsi di stelle, mentre le tre lune salivano allineate sopra l’altra città, tanto erano lucenti che parevano dischi d’argento. In tutta quella meraviglia di luci e colori rivolsi i miei occhi al suolo, che ora compariva d’un arancio acceso, e mi accorsi che una lunga ombra scura veniva proiettata sull’arido terreno da un misterioso oggetto dietro alla città.
Il sole tramontò e sorse più e più volte prima che io mi decidessi a infrangere la legge; mi incamminai verso l’ignoto, verso quelle mura tanto familiari quanto aliene, le raggiunsi e toccai la liscia superficie dei monoliti di pietra del deserto. Iniziai ad aggirare la fortezza, finchè a metà strada, quando il sole era al perpendicolo, vidi accanto alla mia città natale una figura ritta, immobile, come me. Alzai un braccio per salutarla ed ella istantaneamente mi rispose. Abbassai il braccio e lei fece lo stesso. Aguzzai la vista per vedere chi fosse…era di spalle, non mi aveva visto, eppure mi salutava. Provai a muovermi in altri modi: ripeteva tutto alla perfezione. Ero io, mi discostai ulteriormente dalle mura, girai lentamente la testa e davanti alla città c’era esattamente la stessa visione che avevo visto fin dall’infanzia: una sua gemella, che solo ora scoprivo essere un’illusione, solo una crudele illusione delle divinità per farci credere in compagnia, mentre, in realtà, eravamo soli, terribilmente soli, insopportabilmente soli, circondati da deserto e ombre di noi stessi.
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