Ora tu immagina il sole che sta per scomparire dietro le montagne. Immagina i raggi che illuminano per gli ultimi minuti le vaste colline costellate da splendenti tetti di lamiera. Immagina di essere schiacciata tra molte persone in un minivan che sfreccia velocissimo in una vasta strada, ai cui bordi vacche e capre riposano all’ombra di acacie spelacchiate e negozianti si riparano sotto baracche con le fondamenta nella polvere. Ora sei arrivato a casa. Scendi dal taxi e non fai in tempo ad appoggiare il piede sul marciapiede che qualcuno ti sta salutando. Non lo conosci, ma ricambi. Devi attraversare la strada e vedi che i pick-up pieni di persone rallentano perché guardano te: “lekgowa”, “bianca” in sepedi.
Sei in Sud Africa, in Mpumalanga, a Bushbuckridge: la mia casa fino a luglio 2020. È una cittadina piuttosto grande, c’è una strada asfaltata che la percorre e collega le case ai due centri commerciali dove solitamente si va quando si esce di casa. Abito vicino a questa strada principale, ma devo comunque percorrere una strada sterrata, dove il pomeriggio è pieno di persone che parlano e di bambini che giocano facendo semplicemente girare una ruota con dei bastoncini di legno. Abito con mia mamma Grace e le mie due sorelle Kedibone e Neo, rispettivamente di 16 e 9 anni. Tra di loro parlano una delle undici lingue ufficiali, lo zulu, mentre a scuola invece i ragazzi parlano sepedi. Con me tutti si rivolgono in inglese, che tuttavia molti non sanno bene. Nel mio giardino ci sono alberi di avocado e mango e le galline ti rallentano il passo. In fondo c’è una casetta, il bagno. Sì, perché in casa non c’è l’acqua corrente, c’è soltanto un rubinetto fuori. Per lavarmi uso dei secchi, scaldando l’acqua in un bollitore.
È bene sottolineare che il Sudafrica è un Paese in via di sviluppo, perciò in molte zone le persone vivono così. Ma nonostante ciò, il calore, la gentilezza, la bontà, ci sono e si sentono. Il sorriso? Non manca mai. E così ho trovato una famiglia squisita con cui passo tutto il mio tempo al di fuori della scuola, perché quando il sole tramonta, è meglio non uscire. Stiamo tutte assieme in salotto, dove sedute sul divano consumiamo i pasti, ognuno a base di “pap”, che equivale alla nostra polenta, nella variante marrone e bianco, accompagnata da uova, spinaci, fagioli, pesce o carne. A colazione, ma solo all’inizio del mese, quando ci sono più soldi in casa, si mangiano delle palline deliziose di pane fritto oppure dei paninetti dolci detti “scones”. Non mi è ancora capitato di assistere alla soppressione di una gallina, di cui adorano mangiare le zampe e la testa. Le posate durante i pasti non si utilizzano, si mangia con le mani. Il weekend la sveglia è comunque alle 7 per fare le pulizie di casa. Il sabato laviamo i vestiti e ciò ci occupa solitamente mezza giornata. La cena è accompagnata da simpatiche soap opera sudafricane alla televisione e, prima di dormire, ognuno legge ad alta voce un verso della Bibbia, poi si chiude gli occhi e si prega. La religione è una parte fondamentale della vita di un sudafricano. La domenica, infatti, alle 9, si aspetta sulla strada di essere presi su da un amico per andare a messa. La chiesa è una semplice stanza molto ampia. Prima della funzione tutti i bambini e ragazzi si trovano in una stanza per la “Youth Sunday school”, per leggere versi della Bibbia, pregare e cantare. Poi si raggiungono gli adulti nella stanza principale, dove un coro è accompagnato da chitarra, pianola e batteria e tutti stanno in piedi, muovendosi, molleggiando tra le sedie a ritmo di gospel. Qui la gente ha la musica nel sangue e balla come se non avesse lo scheletro! I due pastori poi prendono la parola e invitano una persona diversa ogni domenica per parlare. La persona fa il suo discorso urlando, sudando e gesticolando in inglese in un microfono, mentre ad ogni sua frase un’altra persona traduce le sue parole in sepedi. La mia prima volta a messa sono stata invitata a salire sul palco per essere presentata alla comunità, che mi ha dedicato una preghiera per augurarmi una buona permanenza. Nonostante in Italia io non frequenti la chiesa, andarci qui non mi dispiace. Si parla di vita, di come affrontare le difficoltà, di amarsi l’uno con l’altro. Ai ragazzi viene rimarcato il valore dell’educazione per un futuro brillante senza perdersi in droghe, alcol e sesso. Qui infatti il rapporto d’amore tra ragazzo e ragazza prima dell’università è severamente vietato: se a scuola ci si abbraccia, si può essere sospesi. Tuttavia, ci sono molte ragazze incinte a 16 anni e l’AIDS è una malattia diffusissima tra gli adolescenti. Il mio nome sudafricano è “Phindile” che significa “Born again” in zulu. Appena arrivata a casa mia zia Phindile ha fatto una preghiera in camera mia per augurarmi di trovare amore, amicizia e felicità e per darmi questo nome meraviglioso, uguale al suo. Qui sto provando veramente cosa significhi sentirsi “diversi”. Avere tutti gli occhi puntati addosso. Tutti quelli che mi parlano sono solitamente contenti, ma per strada sono continuamente bombardata di apprezzamenti non richiesti e qualcuno è ostile nei confronti delle persone bianche, perciò quando esco di casa sono sempre accompagnata da mia mamma o mia sorella. Comunque tutti vogliono toccare la mia pelle, il mio naso, i miei capelli, mi fanno complimenti e vogliono farsi una foto con me. Sono qui da un mese e ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. Il mio umore sobbalza durante le 24 ore, ma quando mi infilo sotto le lenzuola sono contenta e fiera della scelta che ho fatto e sono sicura che questa esperienza mi cambierà la vita. Ho vinto una borsa di studio Intercultura per la mia prima scelta di 10 Paesi. Ho avuto quello che volevo e ne sono immensamente felice. Ora devo solo continuare a viverla, senza annebbiare le mie giornate di preoccupazioni o lamentele, perché non ha proprio senso. Nonostante la mancanza di quelli che possono sembrare i comfort necessari per la vita, sentirsi dire ogni sera “Goodnight sis, I love you” non ha davvero prezzo.
di Margherita Groppo
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