Il giorno 23 gennaio si è svolta la selezione d’istituto delle Olimpiadi di filosofia, che ha visto impegnati, tra le classi quarte e quinte del Liceo, 25 candidati per il canale di lingua italiana e 8 per il canale di lingua inglese. La gara consisteva nella stesura di una personale riflessione argomentata partendo dalla lettura di una delle quattro tracce proposte. In questa edizione le tracce, accuratamente scelte dalla commissione composta dai professori Roberto Grison e Fabio Polano e dalle professoresse Graziella Berto, Beatrice Bonato e Anna D’Ambrosio, affrontavano temi differenti: la prima era incentrata sul “conosci te stesso” con estratti dalle opere di Platone, Apologia di Socrate e Alcibiade maggiore; la seconda era incentrata sul valore del dialogo nella ricerca della verità, con un estratto dall’opera di Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici; la terza, incentrata sul rapporto tra coscienza e cervello e corpo e mente, era una citazione da Il mistero della coscienza di R. J. Searle; la quarta ed ultima traccia affrontava il tema della vulnerabilità della vita umana, con un passo tratto dell’opera di Martha Nussbaum, La fragilità del bene.

Successivamente è stato assegnato un voto da 6 a 10 ad ogni candidato e sono stati selezionati due vincitori per entrambi i canali che parteciperanno alla fase regionale il 26 febbraio che si terrà al Liceo Copernico. La fase nazionale, invece, avrà luogo a Roma nella giornata del 12 aprile e vedrà impegnati i vincitori della selezione regionale nei due canali. Le modalità di svolgimento delle Olimpiadi saranno le stesse per ogni selezione. Le premiazioni dei vincitori, uno per il canale italiano e uno per il canale inglese, delle Olimpiadi di filosofia 2018 si terranno il giorno 13 aprile sempre a Roma.

Ricordiamo per il canale di lingua inglese i vincitori d’istituto Stazi Federico e Dedej Mesuafa rispettivamente di 4^D e 4^A, per lo stesso canale inoltre la Commissione ha  ritenuto meritevole di una menzione particolare l’allievo Santi Filippo di 5^F.

Pubblichiamo di seguito gli elaborati dei primi tre classificati per la fase d’istituto per il canale di lingua italiana.

Primo classificato

E SE TUTTI I PROCESSI CEREBRALI FOSSERO DETERMINATI DA RAPPORTI DI CAUSA-EFFETTO?

La mente umana: cosa ci può essere di più strabiliante, di più stupefacente della capacità della mente dell’uomo di comprendere e analizzare lo spazio e gli oggetti intorno a sé, di essere cosciente di se stessa, di sviluppare concetti astratti o fare calcoli matematici, di provare empatia per gli altri, di apprendere in modo più profondo e preciso di qualunque altro essere vivente non solo elementi che potrebbero essere utili all’immediata sopravvivenza dell’individuo, ma anche concetti e nozioni per il puro piacere di conoscere?

Dalla più tenera età, la nostra mente è una compagna costante, indispensabile a noi stessi per identificarci come individui e orientarci nel mondo. Prima ancora che un bambino impari che un albero è un albero, il suo cervello deve avere assunto la capacità di poterlo identificare, prima di sapere che 7+5=12, in qualche parte recondita della nostra mente deve essere presente la capacità di far di conto, capacità che è impossibile trovare in un pesce o in un suricato. Perché allora queste differenze fra la specie umana e le altre specie animali? In cosa il cervello dell’uomo è differente e perché abbiamo sviluppato tali capacità? Indubbiamente il mistero della mente umana solleva molteplici interrogativi.

Fin dall’antichità molteplici filosofi e pensatori hanno cercato di sciogliere il nodo della matassa riguardante il rapporto tra mente e corpo, tra quello che lega noi al mondo esterno e che ci permette di conoscere e apprendere. Basti pensare alla distinzione fra corpo e anima per gli antichi greci, la res cogitans e la res estensa di Cartesio, oppure la conoscenza a priori e a posteriori di Kant, che si interroga su come e su cosa l’uomo possa conoscere, fino a Freud, che pone le basi della psicanalisi. Un importante ruolo al giorno d’oggi è svolto dalla neuroscienza, scienza che si occupa dello studio della mente umana e del suo funzionamento, attraverso lo studio delle varie aree del cervello e dei processi neurobiologici che le interessano. Essa si pone l’obbiettivo, come per certi aspetti fa anche la filosofia, di conoscere i meccanismi intrinsechi del nostro cervello, al fine di trovare rapporti causali fra di essi. In particolare, un interessante quesito è quello riguardante la coscienza.

“‘Il problema della coscienza’”, scrive il filosofo R. J. Searle nel suo elaborato Il mistero della coscienza del 1997 (Cortina, Milano, 1998), “è il problema di spiegare esattamente in che modo i processi neurobiologici del cervello causino i nostri stati soggettivi di consapevolezza e sensibilità, come esattamente questi stati vengano realizzati nelle strutture del cervello e in che modo funzioni esattamente la coscienza nell’economia generale del cervello e quindi in che modo essa funzioni in generale nelle nostre vite”. Egli prosegue dicendo che se si potesse risolvere la questione causale, ovvero qual è la causa della coscienza e che cosa essa causi, si potrebbe risolvere quesiti come ‘In quali zone del cervello sono esattamente localizzati i diversi processi coscienti e perché ne abbiamo bisogno?’ e in generale chiarire il mistero della coscienza.

Interessanti scoperte sono state fatte dalla neuroscienza in questi campi. Pare che molti processi all’interno della nostra mente di cui noi ci rendiamo conto a livello cosciente, come la capacità di vedere e di riconoscere un oggetto, siano in parte frutto di processi che avvengono a livello cosciente e in parte no. Come spiega il neuroscienziato V. Ramachandran nel suo libro “L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana”, anche solo un processo che a noi può sembrare semplice e naturale come la vista di un oggetto è frutto di complicati processi all’interno della nostra mente, che coinvolgono un numero elevato di aree altamente specializzate che sono legate fra loro, in individui normali, da un flusso di informazioni costanti. Una tra le cose più sorprendenti è che, nonostante il nostro essere coscienti della presenza dell’oggetto che vediamo, non tutti processi che portano alla sua identificazione avvengono a livello cosciente come noi potremmo presupporre. Questo è stato dimostrato grazie a studi su pazienti colpiti da un ictus che aveva danneggiato una specifica area del cervello, lasciando intatte molte altre preposte alla vista: questo avvenimento, quindi, aveva modificato in parte il modo in cui il paziente era cosciente di ciò che stava intorno a lui. Per esempio, ci sono stati casi di pazienti colpiti da ictus ai quali è stata mostrata una carota, che essi vedevano e sapevano ridisegnare nei minimi particolari, ma nel momento stesso in cui veniva chiesto loro cosa la carota fosse in sé, essi con sguardo vacuo rispondevano che non ne erano certi, ma poteva assomigliare a un pennello o a oggetti simili. Se si chiedeva a questi pazienti di disegnare un fiore, essi attribuivano il nome rosa o giunchiglia a disegni che per loro erano fiori, ma che in realtà erano forme che non solo non corrispondevano a quelle di una rosa o una giunchiglia, ma addirittura non esistevano nella realtà. Allo stesso modo, pazienti che avevano subito danni cerebrali più gravi, potevano sì essere in grado di percepire sensibilmente il mondo intorno a loro, ma non erano in grado di interpretarlo a livello cosciente.

Un esempio così semplice e riconducibile alla vita di tutti i giorni è già di per sé fonte di un’innumerevole (ed estremamente interessante) quantità di domande. Perché alcuni processi della nostra mente avvengono a livello cosciente e altri no? Cosa la nostra mente sarebbe in grado di fare, anche senza l’esperienza sensibile, anche senza percezione del mondo intorno a noi? Ramachandran, sempre nel suo libro sopra citato, fornisce a noi la spiegazione di un fatto quantomeno inquietante, riguardante lo strano caso di un sinesteta daltonico. Un sinesteta è una persona che, a quanto gli neuroscienziati ipotizzano, presenta una più elevata densità di connessioni fra neuroni che sono stimolati da sensi diversi, per esempio quello dell’udito o della vista o del tatto. Un sinesteta, per esempio, potrebbe essere capace di vedere letteralmente dei colori all’udire delle note musicali o sentire nella realtà dei suoni nel momento in cui tocca un qualcosa di morbido o di ruvido. In particolare, a questo sinesteta di cui il Ramachandran parla nel suo libro era invisibile il colore rosso a causa del suo daltonismo. Tuttavia, da esperimenti scientifici e dalle sue dichiarazioni di vedere un “colore alieno” che non percepiva nella realtà, emergeva il fatto che lui vedeva nella sua mente il colore rosso in risposta a degli stimoli sensoriali non collegati con la vista. Come potrebbe ciò essere lontanamente possibile? Come possiamo percepire nella nostra mente un colore che non abbiamo mai visto nella realtà o percepito coscientemente? Significherebbe che i colori sono qualcosa che la nostra mente conosce a priori e non sono collegati alla materia e alla luce? Oppure c’è qualcosa di più, di cui noi non siamo ancora conoscenza?

È indubbio che la mente umana racchiuda dentro di sé molti misteri, prima di tutto quello della coscienza e di cosa lega la semplice percezione sensoriale a una più avanzata elaborazione dei dati, fino a giungere alla tanto discussa domanda “chi sono io?” e alla nostra identificazione come individui separati dagli altri che sono in grado di pensare autonomamente. Tuttavia, lo studio del cervello umano e dei suoi meccanismi pone anche dei problemi etici che è importante prendere in considerazione. R. J. Searle scrive, sempre ne Il mistero della coscienza, che, scoperti i meccanismi del nostro cervello, “il problema della coscienza diviene un progetto di ricerca scientifica come qualsiasi altro”. Questo significa che il cervello, come un braccio o un’auto o un orologio, verrebbe studiato come nello studio di una macchina vengono studiati i suoi meccanismi. A cosa potrebbe portare questo? Se tutti i processi cerebrali fossero determinati da rapporti di causa-effetto, che fine farebbe la volontà, il libero arbitrio tanto caro all’uomo?

È lo stesso problema che anche la filosofia meccanicista si è posta a suo tempo. Se ogni azione dell’uomo è conseguenza inevitabile di un insieme di molteplici fattori, allora l’uomo non avrebbe libertà di scelta. Cosa potrebbe comportare questo nella società? Potrebbe un assassino essere giudicato colpevole di un omicidio, se l’azione che ha commesso fosse stata inevitabile? La stessa struttura di un processo penale salterebbe: giudicare una persona colpevole non avrebbe più senso, poiché questo implica che ci sia stata la possibilità per essa di scegliere di non macchiarsi di quel crimine e quindi di restare innocente.

di Francesca Virgolini 4^D

Secondo classificato

LA COSCIENZA È LA PARTE CHE DIFFERENZIA L’UOMO DAGLI ALTRI ESSERI VIVENTI

La parola “coscienza” è ormai entrata nel nostro linguaggio comune da tempo e molto spesso tendiamo ad usarla nelle maniere più varie, come quando esclamiamo a qualcuno che ha compiuto un gesto riprovevole: “Non hai una coscienza!”. La maggior parte delle volte, però, non sappiamo cosa significhi esattamente questa parola e quanto e in quale modo la coscienza sia implicata nel rapporto tra mente e corpo. Il problema, rilanciato da R. J. Searle è proprio questo: “[…] qual è la causa della coscienza e che cosa la stessa coscienza causi […]” (R. J. Searle, Il mistero della coscienza, p. 158)

É affascinante come il rapporto tra mente e corpo sia sempre stato, sin dagli inizi della filosofia moderna, una questione ampiamente discussa e abbia messo in crisi filosofi e neuroscienziati.

Quando si pensa a questo dualismo viene subito in mente il “dualismo cartesiano” che è rimasta la deduzione più brillante e quanto più vicina alla verità possibile fino al Novecento, quando con Freud e la nascita della psicanalisi e delle neuroscienze, la disputa sulla coscienza e sulle connessioni con il corpo ha preso un’altra direzione.

Secondo Cartesio l’uomo era prima di tutto un essere pensante e poi un essere dotato di un involucro esterno, costituito da un’estensione, che ricopre l’essenza pensante, il corpo. Seguendo il pensiero di Cartesio, mente e corpo erano due “cose” separate una dall’altra, che in natura non interagivano mai tra di loro: c’erano gli esseri dotati esclusivamente di pensiero e gli esseri dotati esclusivamente di estensione. Nell’uomo, però, accadeva una cosa straordinaria: mente e corpo, res cogitans e res extensa, coesistevano in esso, attraverso quella che Cartesio chiamava “ghiandola pineale”. La res cogitans era la parte dell’uomo incaricata di gestire tutti gli stimoli esterni e le sensazioni che ogni individuo percepiva e inoltre fonte dell’origine della coscienza. La mente era cosciente dell’esistenza del corpo ma sapeva che esso non aveva nessuna influenza su di essa, nemmeno attraverso ciò che proveniva dall’esterno, oltre a ciò che proveniva dall’interno. Con Cartesio il corpo venne considerato unicamente come secondario, una macchina che procedeva meccanicamente e rispondendo a degli stimoli fisiologici.

Nonostante la brillantezza dell’intuizione ciò che non convince ancora oggi e non convinse completamente Cartesio nemmeno allora, è l’idea della “ghiandola pineale”, in quanto attraverso questa teoria Cartesio contraddisse sé stesso al fine di trovare una spiegazione ad un problema tuttora non completamente risolto, ossia quello dell’unione nell’uomo di mente e corpo. Separando drasticamente queste due unità, come aveva già fatto Cartesio, come si può giustificare che nell’uomo esse siano collegate in qualche modo?

Questa concezione è quello che Antonio Damasio chiamò, nella sua opera più famosa, “L’errore di Cartesio”: se mente e corpo sono uniti in qualche punto e attraverso qualcosa, allora dobbiamo supporre che essi non siano totalmente separati l’uno dall’altra, come invece aveva inteso Cartesio, e che forse proprio per questo non riuscì a trovare una spiegazione alla loro coesistenza nell’essere umano.

Seguendo la linea di Damasio, ritengo che la mente e il corpo dipendano necessariamente e reciprocamente, non si può essere solo mente o solo corpo e, come insieme delle due sostanze, non si può sostenere che una abbia il primato sull’altra. Sarebbe come chiedersi se viene prima il pensiero o l’azione, una questione che non si può risolvere in breve tempo e alla fine non si sarebbe nemmeno certi della scelta. Dipende dalle situazioni, dipende dal soggetto e dipende dall’ambiente. Mente e corpo operano in un contesto che definisco, come già Damasio ha fatto, “ambiente”: esso è fondamentale in quanto, tolto un individuo da un determinato ambiente, non riceverà più stimoli, sensazioni, situazioni che determineranno, o prima l’agire o prima il pensiero. Inoltre, per sottolineare ulteriormente l’importanza che secondo me ha un contesto in cui l’individuo è posto, basta pensare a quando, cambiando l’ambiente, cambiano anche gli stimoli che l’individuo riceve e di conseguenza il suo modo di pensare e agire. Se la mente non sussiste senza il corpo e viceversa, si può anche affermare che entrambi non sussistano senza l’ambiente.

Il meccanismo di ogni essere umano funziona così: l’ambiente provoca stimoli che vengono recepiti dal corpo e che da esso vengono trasformati in impulsi che la mente trasforma in sentimenti ed emozioni o in pensieri e ragionamenti.

A questo punto subentra la domanda da cui è partita la mia riflessione: la coscienza dove si genera? Quando diventiamo consapevoli di provare emozioni o sviluppare ragionamenti e di essere composti da due unità in stretta connessione tra loro? E nel momento in cui lo diventiamo, qual è il vantaggio?

Probabilmente se sapessimo rispondere a questa domanda in modo certo avremmo in mano un enorme potere.

La coscienza è determinata da un procedimento molto materiale, interazioni tra neuroni e sinapsi che, all’interno del cervello, generano la consapevolezza di ciò che proviamo e pensiamo, oltre che di come agiamo e del perché. Ma, entrando più nello specifico, al di là dei processi neurobiologici che si generano nel nostro cervello, la coscienza è sviluppata da questa interazione tra corpo e mente, in particolare la coscienza di provare emozioni e sentimenti. Come nel contrasto tra pensiero-prassi, anche nel caso della coscienza non si può dire che essa sia generata o solo dalla mente o solo dal corpo, come non si può nemmeno affermare, per esempio, se viene prima la coscienza del dolore o il dolore stesso, inteso come percezione fisica del dolore. In breve: se non avessimo un corpo attraverso cui riceviamo stimoli e poi una mente che li trasforma in emozioni, non avremmo coscienza di noi stessi e dell’ambiente intorno a noi.

Infatti la coscienza non è altro che consapevolezza e grazie ad essa siamo guidati nelle scelte della nostra vita.

Riflettendo un attimo su come la nostra coscienza sia una caratteristica così straordinaria ed esclusiva dell’uomo, ci si rende conto che è forse proprio per questo che l’uomo è l’animale dominante sul pianeta Terra: non tanto unicamente per la sua ragione quanto per la peculiarità, parzialmente ancora sconosciuta, di essere cosciente della sua esistenza, del suo pensiero e delle sue emozioni. Grazie a questa consapevolezza l’uomo non vive in vista di bisogni naturali o in modo quasi “meccanico” come gli animali, ma al fine di provare emozioni piacevoli e realizzare ciò che ritiene essere fatto maggiormente per lui. Senza coscienza non distingueremmo ciò che nell’ambiente ci nuoce o ciò che ci gratifica e non vivremmo in vista di uno scopo che solo noi stessi, consapevoli di essere liberi di scegliere e liberi di agire, entro definite leggi, ci imponiamo come fine ultimo della nostra vita e non come necessità determinata dalla natura.

In conclusione, la coscienza è la parte che differenzia l’uomo dagli altri esseri viventi e se usata bene ci permette di districarci nell’insieme delle situazioni in cui ci pone il mondo esterno e soprattutto ci permette di capire, anche solo grazie alla sua stessa esistenza, di non poter essere sempre e completamente o solo ragione o solo corpo, perché se lo fossimo non saremmo quello che siamo, umani.

di Alice Pellicciotti 5^B

Terzo classificato

Essere vulnerabili vuol dire essere umani

Soffermiamoci un istante a riflettere sulla vita umana in tutte le sue sfumature di colore e osserviamone ogni piccola sfaccettatura. Rimarremo affascinati nell’ accorgerci di come l’uomo possa arrivare a creare con le sue sole mani le più stupefacenti meraviglie, a provare le più profonde e vere emozioni e allo stesso tempo, di come possa giungere a pochi passi dalla distruzione, fino a compiere le azioni più terribili e scellerate e ci chiederemo come egli possa essere entrambe le cose. La vita umana è fatta di contraddizioni e proprio per questo siamo alla continua ricerca di certezze, di valori che possano essere per noi un punto di riferimento. Tuttavia il caso non fa che porci di fronte a situazioni che mostrano quanto in realtà questi capisaldi di cui abbiamo così bisogno possano crollare, di come ci troviamo sospesi su un filo in una condizione di equilibrio precario che vacilla al minimo soffio di vento. E, come ci fa notare Martha C. Nussbaum, le tragedie mettono in luce questo aspetto. La grande intuizione dei Greci è stata quella di essere riusciti a comprendere che sotto il velo dell’armonia e della compostezza di cui si riveste la realtà di tutti giorni, si cela in realtà il caos, il disordine, l’irrazionalità, gli istinti, le passioni. La vita è una compenetrazione di opposti che vede continuamente intrecciarsi amore e odio, gioia e dolore e, in questo senso, l’essere umano finisce per essere estremamente fragile, vulnerabile. Anche le più fondamentali certezze che appaiono scontate possono venire meno in determinate situazioni. È quello che emerge in tragedie come Medea di Euripide. È evidente per noi pensare che non uccidere sia un bene, un valore giusto su cui poter far riferimento: eppure lei è arrivata ad eliminare i propri figli. Come è potuto accadere? Possiamo in tal modo capire chiaramente come la vita possa portarci a situazioni disperate in cui tutti i nostri valori vengono messi alla prova e in cui vediamo sfumare ogni nostra certezza.

Non bisogna certo pensare che una soluzione possa essere la più totale apatia e repressione di ogni emozione o sentimento che possa renderci vulnerabili. Né d’ altro canto lo è  vivere una vita all’insegna della sconsideratezza, in modo spericolato, senza porci alcun tipo di limite, sentendoci giustificati dal fatto che siamo soggetti al volere del caso. Mentre quest’ultima soluzione è chiaramente destinata a non funzionare, proprio perché una vita rischiosa porta necessariamente ad autodistruggersi, la prima ci spingerebbe a privarci di qualsiasi aspetto positivo della vita: non si può trascorrerla pensando di eliminare ogni cosa che potrebbe renderci vulnerabili e portarci a soffrire sottoponendoci a rinunce in vista di un incerto avvenire. Finiremmo per non vivere il nostro presente posticipando continuamente la nostra felicità ad un futuro che non arriverebbe mai, perché sarebbe a sua volta segnato da privazioni. Molto spesso non ci accorgiamo che la felicità è qui, ora ed è adesso che dobbiamo viverla appieno, apprezzarla. Inoltre essere vulnerabili è comunque un aspetto che fa parte della nostra natura. Quando proviamo amore per qualcuno, quando abbiamo la consapevolezza che la nostra vita dipende completamente da qualcun altro, ogni cosa intorno a noi si tinge di un significato, trova il suo senso più profondo e in un attimo riusciamo a cogliere l’armonia del creato e la bellezza della nostra esistenza; eppure è proprio in questo momento che siamo più vulnerabili. Essere vulnerabili vuol dire essere umani. Tuttavia non sempre si tratta di qualcosa di naturale dettato dalla nostra anima e dal nostro sentire, ma di qualcosa che scaturisce dalla malvagità, da un sentimento basso e infimo che trova le sue radici nell’odio. Basti pensare a tutti gli episodi di violenza di cui sono vittime innumerevoli persone innocenti. Morti premature, stupri e innumerevoli altre ingiustizie. È questo l’aspetto in cui l’uomo dovrebbe cercare di maturare.

Di fronte a questa situazione di instabilità e di fragilità della condizione umana, il primo passo da attuare è quello di una presa di coscienza e di un’accettazione della sofferenza come parte della vita. Bisogna vivere imparando a controllare la propria interiorità e sentendosi in armonia prima di tutto con se stessi, a convivere con la tristezza, la solitudine e imparare in questo modo ad amarsi, nessuno lo farà mai per noi. La sicurezza di sé è uno degli elementi fondamentali che possono davvero renderci in grado di affrontare le difficoltà che inevitabilmente incontreremo nella nostra vita. Arriveranno ad esempio momenti in cui le persone che amiamo avranno giornate buie, saranno irritate, ci risponderanno in modo brusco, magari per motivi che non ci riguardano. E, ogni piccola risposta secca, ogni gesto saranno per noi come lame affilate, se non abbiamo la consapevolezza e la sicurezza del nostro valore. È solo da queste condizioni che si formano i presupposti per il fiorire di vere emozioni, di rapporti sinceri. Emozioni che non dobbiamo rinnegare perché potrebbero renderci vulnerabili, ma che dobbiamo vivere fino in fondo e a cui dobbiamo dare ampio respiro, sempre con la consapevolezza che ogni esperienza positiva potrebbe, e avviene quasi necessariamente, finire. Questa situazione non va vissuta in un’ottica negativa, la nostra vulnerabilità ci permette di crescere, arricchirci fino ad essere in grado di guardare le cose da un punto di vista più ampio, comprendendo che la gioia non potrebbe esistere senza dolore, che momenti felici non potrebbero essere vissuti senza la coscienza di che cosa voglia dire soffrire. È da questa compenetrazione che nasce la vera vita. La condizione umana è fragile, noi siamo vulnerabili, ma è paradossalmente questa vulnerabilità il nostro punto di forza, che rende la nostra esistenza diversa da quella di qualsiasi altra forma di vita, così meravigliosamente carica di bellezza di umanità.

di Giulia di Giusto 5^B