di Carlotta Bianchin

Con questa domanda abbiamo iniziato l’incontro presso la Biblioteca Civica Joppi, il giorno 6 marzo 2017, nell’ambito del percorso MIGRAZIONI: vite in cammino, per confrontarci su un tema molto attuale e discusso ai nostri giorni: l’immigrazione.
C’era chi si guardava intorno, chi invece scuoteva la testa per far segno di no e chi, non avendo ancora le idee chiare, preferiva non esprimersi.
Clandestino: clandestino è un termine che, come ci hanno fatto notare, ci riporta a immagini negative, ci fa pensare a qualcuno che si nasconde, che fugge, che scappa, a qualcuno di pericoloso o di cui avere paura.
Ma si può davvero essere clandestini in questo mondo che dovrebbe appartenere a tutti?
Dico “dovrebbe”; dovrebbe, perché il mio vicino di casa potrebbe considerarmi diversa per la mia nazionalità, per il mio passato forse o per la mia religione. Oggi si ha paura della persona seduta vicino a noi sull’autobus perché ha il colore della pelle diverso dal nostro o a causa dell’abito che indossa.
Ma sono gli immigrati coloro che dovrebbero avere paura. Loro che hanno dovuto camminare per settimane o mesi, in chissà quali condizioni. Loro che si sono allontanati dalla propria famiglia, dai propri amici, che hanno abbandonato la propria terra e le proprie tradizioni solo per proteggere le persone che amano. Hanno avuto coraggio, si sono messi in cammino senza mete precise per salvare la famiglia. E che diritto abbiamo noi di non aiutarli, di non soccorrerli, una volta arrivati qua?
Questo incontro mi ha fatto guardare la situazione dal loro punto di vista, per una volta, cosa che non tutti fanno. Abbiamo avuto la piacevole occasione di parlare con un immigrato, di porgli le nostre domande e di trovare risposte ai nostri dubbi. Kai, uno di tanti. La sua storia, raccontata con gli occhi lucidi e la voce rotta a causa dei brutti ricordi di guerra ad essa collegati, mi ha toccata. Ammetto di essere uscita da quella stanza emotivamente scossa, ma con una nuova consapevolezza dentro di me.
La sua storia, simile a molte altre, mi ha fatto vedere da vicino che cosa loro, esseri umani uguali a noi, hanno dovuto provare e continuano a provare. Ho cercato di immaginare che cosa volesse dire spendere mesi a camminare, senza famiglia o amici, per le montagne, per i boschi, spesso senza cibo per giorni interi. E senza troppa meraviglia non ho immaginato niente. Non so cosa voglia dire, a venticinque anni, prendere una decisione del genere. Non sappiamo cosa voglia dire, noi giovani occidentali di oggi, arrivare al confine e scoprire che oltre non si può andare. Non sappiamo cosa vuol dire andarsene di casa senza soldi e trovarsi a dormire in strada, senza un posto dove andare.
Quindi l’unica cosa che possiamo fare è aiutarli, non discriminarli. Aiutiamoli il più possibile a integrarsi, a imparare la lingua, a riaccendere i loro sogni e i desideri che hanno lasciato a casa. Insegnamo loro a vivere di nuovo e a smettere di sopravvivere.
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