di Alice Tomada e Camilla La Pietra
Capaci. Autostrada A29. 23 Maggio 1992. 17:58. Un boato, enorme, scuote la terra. Un’intera città scompare per qualche istante, inghiottita da una nera e densa nube di fumo. Una Fiat Croma marrone viene scaraventata ad oltre 60 metri di distanza e si accartoccia su sé stessa. Tre agenti di scorta muoiono sul colpo. Si apre una voragine. Si alza una parete di cemento. Una Croma bianca sbatte contro il muro di detriti. Due magistrati perdono la vita. Sgomento. Terrore. Accorre un ragazzo, un fotografo. Venticinque anni, macchina fotografica al collo e il caos davanti a sé. Scatta alcune foto. Fotografie che non verranno mai sviluppate. Mai viste. Mai trovate. Mai esistite.
E sarà proprio quel ragazzo che, 26 anni dopo la strage che ha portato alla morte dei magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, racconterà a noi ragazzi di quarta i fatti avvenuti quel maledetto giorno di maggio che ha segnato la storia italiana e riguardo il quale, ancora oggi, sono aperti grandi e irrisolti misteri.
Si chiama Antonio Vassallo, vive esattamente tra la collina da cui è stato fatto esplodere l’ordigno e il luogo dell’attentato, ha 51 anni, è un fotografo, e fa parte di Addiopizzo Travel, l’agenzia tramite la quale è stato organizzato il viaggio di istruzione in Sicilia.
È il 22 Ottobre e ci troviamo esattamente sul luogo in cui Giovanni Brusca ha attivato il meccanismo di esplosione di 30 chili di tritolo collocato sotto l’autostrada e, bisogna ammetterlo, fa un certo effetto. Calpestare lo stesso suolo che 26 anni fa hanno calcato gli assassini di uomini così importanti per noi oggi non è un’esperienza che capita tutti i giorni.
Davanti a noi appare Capaci in tutto il suo splendore, a tratti illuminata dai pochi raggi di sole che filtrano dalle nuvole di un cielo non proprio sereno. Ascoltiamo le parole di Dario Riccobono, membro di Addiopizzo, che racconta i fatti avvenuti a pochi chilometri di distanza da noi.
Ci raggiunge poi anche Antonio. È una di quelle persone che non sono mai come appaiono a primo impatto. Se ne sta in disparte e scatta qualche foto a noi, al paesaggio, a Capaci. Si direbbe un normalissimo uomo di mezza età, dal viso sereno e dai modi tranquilli. Non ci si aspetta che abbia vissuto esperienze di un certo calibro e di una determinata importanza che hanno completamente stravolto la sua vita. Eppure, non appena inizia a parlare cominciamo a pendere dalle sue labbra. Antonio, oltre che un esperto fotografo, è anche un abile narratore.
I fatti accaduti quel fatidico giorno di maggio, ormai, fortunatamente, li conoscono gran parte delle persone, ma Antonio ci rivela fatti incredibili, cui si stenterebbe a credere se non fosse che ci sono stati raccontati proprio dal diretto interessato.
Insieme ad Antonio realizziamo un vero e proprio salto nel tempo, ripercorrendo davanti ai nostri occhi ciò che il fotografo racconta di aver visto e fatto ventisei anni prima.
23 maggio 1993. Antonio è appena tornato a casa dopo aver realizzato un servizio fotografico. Ha ancora la macchina fotografica al collo quando, verso le 18, sente un boato. Pensa subito si tratti di un’esplosione avvenuta nella vicina ciminiera ma ben presto si rende conto che il rumore proviene dalla parte opposta, nei pressi dell’autostrada. Antonio è un ragazzo giovane, inesperto e avventuroso, come ci racconta lui stesso, e non perde tempo. Inforca la sua motocicletta e parte seguendo la nube di fumo che si staglia davanti ai suoi occhi. Arriva nei pressi dell’autostrada e ciò che scorge davanti a sé è terrificante, letteralmente “una scena tratta dai peggiori film western”. Ma, ciò che vede, noi oramai lo conosciamo. Concentriamoci su ciò che succede ad Antonio. Dunque, davanti a quel terrificante spettacolo il ragazzo non sa come comportarsi. Si accorge di avere la macchina al collo e scatta alcune foto panoramiche. Comincia poi a perlustrare l’area e raggiunge la croma bianca che presenta la parte anteriore completamente distrutta. All’interno dell’auto, sui sedili anteriori nota due figure, Falcone e Francesca Morvillo, riversi su se stessi. Il magistrato non è ancora privo di sensi e per un attimo il suo sguardo incrocia quello di Antonio. Il fotografo non dimenticherà mai quel momento. Ricorda ancora ciò che gli parve che quello sguardo volesse dire: “Ce l’avete fatta ad ammazzarmi”.
E proprio mentre si trova lì, in piedi di fronte a quello spettacolo terrificante la portiera dell’auto di scorta che si trova dietro la vettura di Falcone, si apre di scatto. Un agente in divisa, Angelo Corbo, ve ne esce inforcando un mitra che punta minacciosamente verso Antonio, scambiando la macchina fotografica al collo del fotografo per un’arma. Antonio, fotografo, venticinque anni e la paura di morire. Fa l’unica cosa che in quel momento gli sembrava giusta fare: scappare.
Ma la curiosità vince su tutto, quando sei un ragazzo che si sente invincibile. Torna nei pressi dell’autostrada, la macchina fotografica ancora al collo. Proprio in quel momento gli si avvicinano due uomini in borghese che dichiarano di essere degli agenti di polizia e gli mostrano velocemente un tesserino, a proposito del quale Antonio racconta di non aver mai capito se si trattasse della tessera di polizia o dell’abbonamento in palestra. Gli chiedono il rullino contenente le foto scattate da Antonio. Il ragazzo assicura loro che glielo avrebbe dato non appena avesse finito di scattare le ultime foto ma a quel punto i due pseudo agenti si avvicinano a lui, lo prendono con violenza per il braccio e gli intimano ancora una volta di consegnare il rullino delle fotografie. A quel punto Antonio si trova costretto ad obbedire. Consegna loro ciò che desiderano e, solo allora, i due uomini si allontanano.
Le fotografie scattate da Antonio costituiranno un elemento importante nella risoluzione del caso. Già, sarebbe bello poter dire così. Invece Antonio non rivedrà mai più il suo rullino e, cosa più importante, le fotografie non arriveranno mai nelle mani della questura, come scoprirà successivamente il nostro fotografo. Insomma, pare che le foto scattate da Antonio non siano, in realtà, mai esistite.
Antonio comincia a credere che i due uomini che lo avevano avvicinato quel giorno fossero tutt’altro che agenti di polizia. Ma cosa aveva scattato di così importante da dover essere nascosto agli occhi della polizia? E soprattutto: chi aveva fotografato?
Non lo scoprirà mai. Non lo scopriremo mai. Nella risoluzione del caso, nell’individuare i colpevoli della strage di Capaci mancherà sempre un tassello fondamentale.
Eppure, come spesso succede, una tragica storia può raggiungere un epilogo felice. Ed è proprio quello che succede al nostro amico fotografo. Dopo la strage incontra Angelo Corbo, gli rivela la propria identità. I due si abbracciano commossi e l’agente gli racconta: “Per fortuna sei fuggito. Avevo il dito pronto a premere il grilletto. Il proiettile aveva già fatto mezza corsa.”
Da quel giorno è nata una splendida amicizia, viva ancora oggi, tra due uomini che in un modo o nell’altro hanno rischiato la vita, in nome della giustizia.
Da quel giorno Antonio, come ci racconta, vive come un sopravvissuto, vive la vita cominciata dopo quel maledetto 23 maggio 1993 come l’avanzo di una vita terminata nel momento in cui ha visto la canna del mitra puntata verso di sé.
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