di Giovanni Pitacco

L’argomento in questione è molto ampio e articolato, per cui prima di poter fornire un’adeguata risposta è necessario innanzitutto indagare sulle motivazioni che possono indurre alla decisione di togliersi la vita; le cinque principali cause individuate sono queste:

  1. la perdita di una persona a noi cara
  2. il rimorso o la vergogna
  3. la depressione (intesa come patologia invalidante)
  4. il desiderio di sentirsi liberi di scegliere per se stessi
  5. il dolore provocato da qualcosa che non dipende da noi

 

Articolo I – La perdita di una persona a noi cara

È necessario, prima di procedere con l’articolo I, specificare che la perdita di una persona può avere due significati: un lutto, oppure l’allontanamento della persona in questione a causa di differenti scelte di vita.

Ora, nel momento in cui avviene la morte di un nostro caro il dolore che si prova è indescrivibile, lancinante e corrosivo, poiché non si riesce in alcun modo a evitare di pensare a tale avvenimento, alle situazioni in cui ci si è comportati male nei confronti della persona defunta (il che ci fa, in qualche modo, sentire in colpa, acuendo il grado di dolore provato) e ai bei momenti passati insieme e, di conseguenza, si prosegue il ciclo di sofferenza pensando che quei bei momenti sono terminati e non si ripeteranno mai più.

Nel caso dell’allontanamento di una persona, invece, vale sempre il discorso relativo al flusso di pensieri sulle situazioni in cui ci potremmo essere comportati meglio nei suoi confronti e sui momenti di felicità condivisa con la stessa.

È da vedere, a questo punto, se la morte o la separazione è avvenuta a causa di una nostra azione (1) o meno (2): nel primo caso (1) si sfocerebbe nell’articolo II per cui, per il momento, non verrà preso in considerazione; nel caso (2), invece, il dolore può essere reso maggiore dall’ammissione della nostra impotenza davanti al procedere delle cose: ci si tormenta all’idea di non poter essere stati in grado di fare qualcosa per aiutare una persona da noi amata e in alcuni casi, questo tormento genera la malattia trattata nell’articolo III.

Alla luce dell’analisi proposta, si può dunque pensare che il dolore causato dalla perdita di una persona a noi cara ci indispone a tal punto da impedirci di poter essere felici nel corso di ciò che ci resta della vita terrena (ed è di questo che si tratta: la sofferenza è contraria alla felicità e dunque il motivo del nostro dolore è da ricercare nell’impossibilità di essere felici) e questo, di fatto, ci dà il diritto di toglierci la vita.

 

In contrario:

 

“La felicità è una menzogna, la cui ricerca è causa di tutti i malanni della vita.” “Con la serenità si vive meglio.” “La persona serena procura serenità a sé e agli altri.” (Epicuro)

 

Rispondo:

Lo scopo della vita è da ricercarsi non nella felicità, ma nella serenità; e per essere sereni bisogna essere consci dei confini delle nostre possibilità e amare la vita all’interno di questi limiti; Epitteto dice di <<non cercare di fare in modo che le cose vadano come vuoi>>, ma di accettarle come vanno: <<così sarai sereno>>.

È vero, siamo impotenti di fronte a certe cose, ma così come lo siamo noi lo sono tutti gli altri essere umani, e tutti loro hanno verosimilmente vissuto le nostre stesse situazioni di sofferenza e, tuttavia, se la razza umana non si è ancora estinta a causa di un suicidio di massa, significa che la maggior parte di essa è riuscita ad andare avanti, ad anteporre una visione collettiva e più ampia al dolore del singolo, che in questo caso siamo noi. Del resto, come diceva San Tommaso nell’Articolo 1 della Questione 38, <<la percezione sensibile del presente è più forte della memoria del passato e l’amore verso se stessi è più forte di quello verso gli altri>>, per cui la memoria dei bei momenti condivisi con la persona da noi persa possono essere facilmente sostituiti dalla presenza di una sereno presente (reso possibile dal sostegno di altre persone a noi care e dalla prospettiva di un futuro che può definitivamente depurarci dalla negatività del passato e da ogni genere di sofferenza).

Essendo dunque che il dolore causato dalla perdita di una persona non è incurabile e non lede in modo irreversibile la ricerca della serenità e non mette a repentaglio l’incolumità delle persone che ci circondano, esso non ci dà il diritto di toglierci la vita.

 

Articolo II – Il rimorso o la vergogna

 

Sia il rimorso che la vergogna provocano una sofferenza radicata ben più in fondo di quella analizzata nell’articolo precedente, e tale sofferenza è mossa da azioni da noi compiute a mente lucida (1) o alterata (2): considerando che mai l’essere umano, se non sotto ricatto o situazioni particolarissime in cui viene arrecato danno ai suoi interessi, agisce contro la propria profonda volontà, la situazione (2) non va presa in considerazione poiché l’alterazione o l’offuscamento della mente non comportano un’alterazione della propria volontà profonda e reale.

Dunque, rimorso e vergogna sono causati da un nostro razionale agire che, nel momento in cui avviene, ci appare come la cosa più giusta o vantaggiosa da fare ma, a posteriori, ci rendiamo conto di aver commesso un errore più o meno grave che ci induce a farci pentire della decisione presa. Questo pentimento, che è il fattore comune di rimorso e vergogna, ci consuma dall’interno perché la sua causa siamo solo ed esclusivamente noi, che ci rendiamo conto di aver fallito nella nostra scelta, di non essere stati impotenti per una volta bensì di essere stati impulsivi, imprecisi o semplicemente sfortunati.

Costoro, oltre ad aver arrecato un pericoloso danno a se stessi, potrebbero aver compromesso anche altre persone (si consideri il caso in cui la decisione di un leader si ripercuota su tutto il gruppo) e in tal caso ritengono che, al fine di causare altri danni a qualsiasi altro essere, sia di loro diritto togliersi la vita.

 

In contrario:

 

“Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.” (GENESI)

 

Questo significa che la vergogna non esisteva nel Giardino dell’Eden, ma adesso essa è la condizione dell’uomo, comune a tutti quanti e generata da un’errata decisione presa da altri; di fronte alla vergogna, e al rimorso che la vergogna genera, siamo impotenti.

 

Rispondo:

La vergogna e il rimorso rappresentano la saggezza dell’uomo; questo perché il semplice fatto di mettersi ad analizzare le proprie azioni e riconoscere che abbiamo sbagliato (e di fatto ciò significa dichiarare la propria non-perfezione, la propria umanità) denota una profonda saggezza; commettere un errore senza l’ammissione di aver sbagliato è dannoso per colui che erra e per coloro sui quali il suo errore si ripercuote, ma è nell’ammissione del proprio sbaglio che si manifesta il desiderio che le cose andassero in modo diverso, in modo più vantaggioso: è qui che si riconosce la tendenza dell’individuo verso la serenità, la pace con se stesso e con gli altri. Per cui, l’autore dello sbaglio, pentito e vergognato, non ha qualcosa dentro di sé irrimediabilmente corrotta che lo precluda dalla sua missione ultima (la serenità) o che gli impedisca di prendere decisioni di cui, in futuro, non si pentirà.

Alla luce del ragionamento proposto, si può affermare che nemmeno il rimorso e la vergogna ci conferiscono il diritto di toglierci la vita.

 

Articolo III – La depressione

 

La depressione è un disturbo dell’umore che generalmente si manifesta come perdita dell’interesse e di piacere nelle attività che generalmente generano piacere, oltre a un abbassamento dell’autostima. La depressione è accompagnata da ingiustificata tristezza e sofferenza e da un invasivo senso di impotenza. L’esistenza stessa, nel soggetto depresso, diventa troppo dolorosa, e lo stato della depressione penetra nei propri pensieri, innestando e facendo sembrare razionali pensieri autodistruttivi, come “A nessuno dispiacerà se scompaio” o “Il mondo sarebbe un posto migliore senza di me“.

Questo disagio psicologico può non essere visto come un disturbo dall’individuo che ne soffre che, non rendendosene conto e dunque non cercando in alcun modo di “salvarsi” dal suo stato, peggiorerà la propria condizione perdendo completamente l’interesse nella vita e in tutto ciò che fino a quel momento lo aveva interessato; a quel punto, l’individuo malato non si pone nemmeno la domanda se egli abbia o meno il diritto di uccidersi, perchè il suo dubbio fondamentale è un altro: “ho o non ho il coraggio di uccidermi?”.

 

In contrario:

Una persona depressa non può essere in alcun modo biasimato per i propri pensieri: è semplicemente la natura della sua malattia. Tuttavia, non bisogna lasciare che quest’ultima prenda il possesso della sua mente: la depressione si può combattere.

 

Rispondo:

Nel momento in cui la persona depressa decide di commettere il suicidio, seppur sia possibile che in quel preciso istante essa sia mentalmente lucida, comunque prende una decisione condizionata, non libera: nessuno si toglie mai veramente volontariamente la vita. Infatti, se non fosse per il suo disagio, che gli impedisce la contemplazione razionale della realtà dei fatti, la sua mente non sarebbe attraversata da pensieri depressi e distruttivi come quello del suicidio. Per cui l’uomo depresso, non possedendo il pieno controllo delle sue facoltà razionali e mentali, non ha il diritto di togliersi la vita; inoltre, la depressione può essere tenuta sotto controllo tramite l’utilizzo di farmaci specifici e, in minor parte, dall’aiuto delle persone a noi care, che rappresentano per noi un sollievo, una dimostrazione di amore che può alleviare il dolore causato dal disagio psicologico: per cui, dato che la depressione, almeno negli stadi iniziali, non è incurabile, a maggior ragione essa non ci dà il diritto di ucciderci.

Infine, al depresso in cerca del coraggio per uccidersi, andrebbe detto (seppur si tratti di parole che lasciano il tempo che trovano, dato che il depresso non ragiona con la propria mente) che <<Ci vuole più coraggio a soffrire che a morire>> (Napoleone).

 

Articolo IV – Il desiderio di scegliere per se stessi

 

Abbiamo discusso prima della sensazione di impotenza davanti al succedere delle cose; adesso si parlerà del riconoscimento del fatto che, di fronte allo scorrere della vita, l’uomo non è completamente incapace.

L’uomo è libero di scegliere cosa è meglio per sé, per cui chi può biasimarlo se decide di cogliere la morte di sorpresa togliendosi la vita? Chi gli impedisce di scegliere l’esatto momento della sua morte, soprattutto nel caso in cui la scelta sia legata a motivazioni religiose e dunque significhi abbandonare la vita terrena per raggiungere una condizione superiore?

Ma svincolando tale scelta da qualsiasi dimensione spirituale, si può pensare che un uomo abbia un tale disprezzo per la vita, irrimediabilmente legata e guidata da decisioni prese da altre persone al posto nostro, da voler prendere, per una volta, una decisione che dipenda esclusivamente da lui; una decisione sicuramente estrema, ma presa razionalmente, una decisione ragionata: il suicidio non è tanto il desiderio di morire, quanto più la voglia di scomparire. E davanti a una così radicale e decisa presa di posizione, c’è qualcuno che negherebbe a tale uomo il diritto di togliersi la vita?

 

In contrario:

La vita non è in nostro pieno possesso, per il semplice fatto che non siamo noi ad aver deciso di nascere; è un dono che ci è stato fatto, e noi nascendo abbiamo fatto un dono a chi ci ha messi alla luce. Una volta “inconsciamente” accettato il dono della vita, sapendo che comunque essa ha una “data di scadenza” ovvero un termine, non sembra essere in nostro potere il rifiuto di tale dono, che è già stato accolto.

 

Rispondo:

Così come non si sceglie di nascere, tendenzialmente non si dovrebbe nemmeno scegliere di morire; prima o poi succederebbe comunque, per cui non è giusto porre fine anzitempo a qualcosa che non ci appartiene completamente. Ma superato questo ostacolo (che è solo morale), va detto che la decisione di togliersi la vita, per quanto ragionata sia, rimane irrazionale <<perchè rinunciando alla vita a causa del disgusto che essa mi provoca, io dimostro di avere un concetto errato dello scopo della mia vita, supponendo che serva al mio piacere, mentre essa ha per scopo, da un lato, il mio perfezionamento personale e dall’altro la cooperazione all’opera generale che si compie nel mondo.>> (Tolstoj)

Per cui, ancora una volta, il suicidio sarebbe indotto da un’errata concezione dello scopo della vita; il suicida diventerebbe un disertore. La condizione del suicida non sarebbe incurabile né tantomeno immodificabile, ergo egli non ha, ancora una volta, il diritto di togliersi la vita.

 

Articolo V – Il dolore provocato da qualcosa che non dipende da noi

 

Questo argomento, si potrebbe pensare, è già stato indirettamente trattato negli articoli III e IV; tuttavia, in questo caso “qualcosa che non dipende da noi” va inteso con l’accezione che accomuna l’affetto da schizofrenia (1) e colui che rimane in vita, tra dolori impensabili, solamente grazie all’ausilio di macchine (2).

Lo schizofrenico non decide di diventare tale, ma questo stesso discorso si può estendere a qualsiasi tipo di sofferenza o malattia; tuttavia, lo schizofrenico perde completamente l’uso della ragione, perde la possibilità di contemplare ciò che realmente accade e ciò che realmente esiste; egli vive in un mondo tutto suo, dove accadono cose che per noi non hanno significato, e ai suoi occhi i malati siamo noi.

Nel caso (2) l’uomo ha perso la capacità di controllo di quelle facoltà che lo rendevano libero di agire e di dipendere esclusivamente da se stesso; egli non vive più, ma esiste solamente. L’unica cosa che lo costringe a mettere fine ai propri giorni è il desiderio di non infliggere il dolore del proprio suicidio ai propri cari, che sono ancora vivi.

In entrambi i casi ((1) e (2)), gli individui sono costretti a vivere in un mondo che non gli appartiene più.

 

Rispondo:

Lo schizofrenico non è lucido nel momento in cui decide di compiere il suicidio, per cui valgono le conclusioni raggiunte nell’articolo III se non fosse che la schizofrenia ingloba completamente quella razionalità che, almeno parzialmente, appartiene al depresso. Dunque non è una decisione che si può veramente discutere, non essendoci la possibilità di un dialogo razionale con colui che è affetto da schizofrenia.

L’uomo del caso (2), lui sì che è veramente impotente di fronte a ciò che lo circonda: l’unica vera scelta che può prendere è di evadere dalla sofferenza, e in questo caso si annullano tutti i discorsi moraleggianti e filosofici su quanto sia codarda la scelta di morire o di vivere, perchè si tratta di discorsi che hanno un senso solo quando l’uomo possiede a pieno le proprie facoltà di movimento, di scelta, di ragionare.

Napoleone scrive, nel saggio Sul suicidio, che l’uomo ha diritto di uccidersi se la sua morte non danneggia altre persone e se per lui la vita è soltanto dolore. Nei casi dell’articolo V, sicuramente la morte arreca danno ai cari dei suicidi; tuttavia, essendo questi ultimi impossibilitati nel modificare la propria condizione o nel vivere la propria vita al pieno delle sue possibilità, sono gli unici esseri umani che, una volta scelto di togliersi la vita, non verranno biasimati da nessuno, seppure il suicidio in qualunque caso provoca altro dolore (ad altre persone).